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Eutanasia o “dolce morte”: una pratica consolidata?

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Chiara Santomiero - Aleteia - pubblicato il 09/06/14
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Un medico ammette di aver aiutato a morire almeno un centinaio di pazienti secondo una modalità comune in tutt’Italia

In almeno un centinaio di casi "sono andato oltre": è questa la confessione choc di Giuseppe Saba, ex ordinario di anestesiologia e rianimazione all'Università di Cagliari e alla Sapienza di Roma che a 87 anni ha raccontato di aver aiutato a morire un centinaio di pazienti gravi. Non si tratta di "eutanasia", ha precisato, ma di "dolce morte", un aiuto per smettere di soffrire, con il consenso più o meno esplicito degli stessi pazienti e dei loro familiari. Una pratica, secondo Saba, consolidata in tutta Italia e della quale non si dice per ragioni di conformismo. Aleteia ne ha parlato con Gian Luigi Gigli, il neurologo oggi deputato di Per l'Italia, che si è battuto per salvare dall'eutanasia Eluana Englaro, guidando il "Comitato Friulano per Eluana e per tutti noi".

 

E' possibile che nelle strutture sanitarie si verifichino tanti casi di "eutanasia" o "dolce morte" con il consenso di pazienti e familiari?

 

Gigli: Non mi risulta e, ovviamente, mi auguro che non sia così. Occorre anche intendersi. Saba, nelle sue dichiarazioni, mescola trattamenti che hanno a che fare con il controllo del dolore – per esempio l'uso della morfina, che può in effetti portare a un accorciamento della vita ma non perchè sia questo l'obiettivo della somministrazione -, con azioni od omissioni di terapia che sono finalizzati all'accorciamento della vita. L'uso di farmaci che con lo scopo di alleviare il dolore possano indirettamente accorciare la vita è sì una pratica consolidata, ma senza fine eutanasico. Quando si è di fronte a situazioni di estrema gravità, ci si accorge che i parenti vorrebbero che la sofferenza dei propri cari non si prolungasse ma richieste esplicite di tipo eutanasico non rappresentano oggi la quotidianità oggi, se non come frutto di qualche momento di disperazione. Io credo che Saba abbia deciso da solo di sostituirsi a Dio e alla legge.

 

Qual è il confine tra cura e accanimento terapeutico?

 

Gigli: In inglese c'è una parola migliore di "accanimento": si parla di "ostinazione" terapeutica. Si concretizza nel tentativo di voler contrastare a tutti i costi un destino che è ormai ineluttabile e contro il quale vengono messi in atto dei mezzi che, per quanto estremamente gravosi per il paziente, non risulteranno comunque utili allo scopo. E' la situazione che in genere si determina nei malati terminali. Qui devono entrare in gioco il buon senso clinico e l'umanità dei medici, tenendo conto che spesso in questi casi si registra una spinta dei familiari a tentare di tutto per non perdere la speranza. Sempre di più, tuttavia, il buon senso clinico e il senso di umanità evitano che al paziente vengano imposte terapie gravose che non portano da nessuna parte.

 

Come si procede in questi casi?

 

Gigli: Diverso dall'accanimento terapeutico è l'accompagnamento del paziente, che non ha niente a che fare nè con l'eutanasia nè con il cosiddetto "abbandono" terapeutico. Il rischio molto più frequente che si corre oggi è, all'opposto, il lasciar stare. Non significa tentare di fermare il sasso che scivola sul piano inclinato in un modo ormai incontrastabile, ma piuttosto, portare il paziente per mano, alleviare le sue sofferenze, aiutarlo dal punto di vista psicologico, sollevarlo dagli altri sintomi che non hanno a che fare con il dolore, ma che possono essere comunque fastidiosi come lo stress respiratorio o problemi intestinali. Tutto questo è il normale accompagnamento del paziente che viene riassunto nella terminologia della "medicina palliativa". Però non si traduce nè in eutanasia nè nella sottrazione di cure solo perchè qualcuno, dall'esterno, giudica che per quel paziente sia preferibile ormai che ci lasci.

 

I medici sono preparati per affrontare queste situazioni?

 

Gigli: Sono convinto che un qualche tipo di formazione su questi argomenti possa aiutare, ma soprattutto sono necessari dei maestri. Chi ha avuto la fortuna di imparare la medicina da colleghi che avevano un senso di umanità profonda e di rispetto della vita per l'altro, allora "perde" anche volentieri il suo tempo con il paziente e i familiari per cercare di aiutare, sollevare, consolare nel momento in cui non può fare altro. Per, in una parola, prendersi cura sempre del malato. Quando, invece, si impara la medicina seguendo l'economia del tempo o la carriera così come determinata dal direttore generale dell'azienda, è chiaro che questi valori possano venire trascurati. A quel punto, la soluzione più facile può essere proprio quella o di aspettare pilatescamente che la natura faccia il suo corso lavandosene, appunto, le mani, oppure – peggio ancora – dando una spinta, come nel caso del collega Saba, delle cui azioni dovrebbe ora interessarsi la magistratura.

 

 

 

 

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