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Dalla Pasqua alla Pentecoste. Un unico ottavo giorno

The evening sun streams in through the east window of Blackfriars church in Oxford after Mass on Pentecost Sunday.

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Dimensione Speranza - pubblicato il 04/06/14
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I cinquanta giorni che seguono la Pasqua hanno la caratteristica di essere come “un unico giorno”. In essi si pregusta sulla terra ciò che vivremo nel mondo futuro

di Matteo Ferrari OSB Cam

Il tempo di Pasqua inizia con la domenica di Risurrezione e si protrae per cinquanta giorni fino alla solennità di Pentecoste, per questo motivo è anche detto Cinquantina pasquale. Di tutti i tempi liturgici probabilmente quello pasquale è stato il meno valorizzato nella vita delle nostre comunità nel post-concilio. Quando parliamo di “tempi forti” infatti intendiamo normalmente l’Avvento e la Quaresima… ma allora il tempo di Pasqua non sarebbe un “tempo forte”? Ammesso che una tale terminologia sia corretta, non sarebbe più logico chiamare “tempi forti” la Quaresima e la Pasqua, cioè il ciclo pasquale? Cos’è che rende un tempo “forte”?

Un segno che il tempo di Pasqua è così poco valorizzato e non percepito come importante nella vita della Chiesa lo si nota dal fatto che esso, dopo l’intenso periodo della Quaresima e della Settimana Santa, venga subito sommerso da molte altre iniziative che rischiano di offuscarne la celebrazione. Basti pensare alla “giornata delle vocazioni”, la IV domenica di Pasqua. Per il fatto che nel Vangelo compare la figura del Buon Pastore, tutto viene subito riletto in chiave vocazionale. Ma è questo il senso della celebrazione? Altro fatto significativo, solo per fare un altro esempio, è la tradizione popolare del mese di maggio dedicato a Maria. Spesso si ha il sospetto che in alcune comunità – non tutte naturalmente – il tempo liturgico che si sta celebrando sia il mese mariano e che la Cinquantina pasquale sia andata un po’ nel dimenticatoio. Ma, se avessimo letto con attenzione il n. 13 di Sacrosanctum concilium, dovremmo sapere che non è la piètà popolare a dare forma alla liturgia, bensì il contrario. Il testo afferma che i pii esercizi dovrebbero essere «regolati tenendo conto dei tempi liturgici, in modo da armonizzarsi con la liturgia; derivino in qualche modo da essa e ad essa introducano il popolo, dal momento che la liturgia è per natura sua di gran lunga superiore ai pii esercizi». Infine possiamo ricordare la novena di Pentecoste che, se apparentemente sembra più legata al tempo liturgico, finisce per creare un tempo nel tempo e a isolare la celebrazione della Pentecoste, rispetto al tempo di Pasqua del quale essa è il compimento.

Consapevoli di questa difficoltà nel comprendere e nel vivere il tempo di Pasqua, proviamo a interrogare la tradizione patristica e i testi liturgici per lasciarci dire il senso di questo tempo liturgico così importante per la vita della Chiesa.

COME UN SOLO GIORNO DI FESTA…

Nella tradizione patristica e liturgica i cinquanta giorni che seguivano la celebrazione della Pasqua annuale venivano considerati come una grande domenica, un solo “grande giorno”. Massimo di Torino (padre della Chiesa morto nella prima metà del V sec.), parlando della Cinquantina pasquale, afferma: «A guisa… della domenica tutto il corso dei cinquanta giorni è celebrato e tutti questi giorni sono considerati come domeniche; la risurrezione, infatti, è di domenica. La domenica il Salvatore risorgendo ritornò tra gli uomini e dopo la risurrezione rimase con gli uomini per tutto il periodo di cinquanta giorni. Era dunque necessario che fosse uguale la festività di quei giorni dei quali era uguale anche la sacralità» (Serm., 44,1). Per Massimo e per la Chiesa antica quindi i cinquanta giorni del tempo di Pasqua erano vissuti come «una perenne e ininterrotta festività» nella quale si celebrava nella gioia la risurrezione del Signore. Per questo era vietato ogni atteggiamento e ogni gesto che potesse oscurare il carattere festivo e gioioso di questi giorni: digiuno, genuflessioni… Tutto doveva esprimere la gioia della Chiesa per la vittoria del Signore sulla morte e per la nuova vita che la partecipazione alla Pasqua di Cristo aveva fatto germogliare nei credenti.

Anche Atanasio, vescovo di Alessandria d’Egitto del IV secolo, nelle Lettere festali – cioè in quelle lettere che il vescovo scriveva alle sue comunità per comunicare la data in cui celebrare la Pasqua – riguardo alle sette settimane che seguono alla domenica di Pasqua, chiama la Cinquantina pasquale “il santo giorno di Pentecoste” e ancora “la grande domenica”, “il simbolo del mondo futuro”.

Quindi per i padri i cinquanta giorni che seguono la Pasqua hanno questa caratteristica di essere come “un unico giorno”! In essi, dice Atanasio, si pregusta sulla terra, ciò che vivremo nel mondo futuro. Questi giorni sono “caparra” della vita eterna. Quando i padri affermano che si tratta di “una grande domenica”, significa anche che per essi questo tempo era come un unico “ottavo giorno”, nome che veniva dato alla domenica, cioè un giorno che esce dai ritmi normali del tempo, fondato sulla settimana, e che è proprio per questo profezia, caparra della vita eterna.

LA CINQUANTINA PASQUALE NEL LEZIONARIO

Se percorriamo il Lezionario delle domeniche del tempo di Pasqua, vediamo in modo più concreto cosa significhi definire questo tempo “un unico giorno di festa”. Infatti a partire dai testi biblici si comprende subito come la Chiesa in questo tempo sia condotta dalle Scritture a “fare propria” la Pasqua che ha celebrano “in unità” nel Triduo santo.

Prima di vedere qualche esempio concreto nel Lezionario, lasciamoci aiutare nella comprensione di quanto abbiamo appena affermato da un testo liturgico che troviamo nella fonte stessa del tempo di Pasqua, la Veglia pasquale. Nella orazione dopo la VII lettura, un testo molto antico della tradizione della Chiesa di Roma, leggiamo: «Tutto il mondo veda e riconosca che ciò che è distrutto si ricostruisce, ciò che è invecchiato si rinnova e tutto ritorna alla sua integrità, per mezzo di Cristo, che è principio di tutte le cose». Al termine dell’itinerario spirituale della Quaresima, la Chiesa chiede occhi per riconoscere la nuova vita che la Pasqua del Signore in essa genera. Il tempo di Pasqua consiste proprio in questo, nella manifestazione della vita del Risorto nella Chiesa e nell’umanità. È questa concretamente la “caparra” della vita eterna di cui parla Atanasio.

Se ritorniamo al Lezionario, vediamo che le letture ci guidano all’incontro con il Cristo risorto presente nella comunità dei credenti. I brani delle Scritture – soprattutto nei brani evangelici – proclamati nelle domeniche di questo tempo liturgico mostrano i frutti della Pasqua nella vita della Chiesa, le varie angolature nelle quali è possibile comprendere il mistero pasquale.

Vogliamo sapere cosa significa per la vita dei credenti la Pasqua di Gesù? Basta seguire il lezionario del tempo di Pasqua e scopriremo che egli è divenuto il Vivente, presente nella Chiesa. Per questo egli si lascia incontrare (“toccare”) da ogni generazione di credenti, anche da chi, come Tommaso, la sera del giorno di Pasqua era assente (II domenica – Ottava). Gesù Risorto nella sua Pasqua è divenuto per la Chiesa colui nel quale le Scritture si compiono, la loro chiave interpretativa e il loro senso ultimo. Nello spezzare il pane della cena gli occhi dei discepoli si aprono e ritorna la memoria del cuore che ardeva nel loro petto mentre il Risorto, pellegrino sconosciuto che camminava accanto a loro sulla strada, spiegava le Scritture (III domenica). Gesù risorto è divenuto per la Chiesa “pastore”, “via”, “vite”… (V domenica). Egli è il buon pastore (Gv 10 letto nell’anno A, B e C). Le “pecore”, che lo hanno seguito prima della sua Pasqua, nel suo cammino, che hanno ascoltato le sue parole e visto i suoi gesti, ora riconoscono la sua voce e lo seguono. Quindi Gesù Risorto è divenuto per la sua Chiesa la guida che la conduce attraverso la storia verso i pascoli della vita eterna (IV domenica). Gesù Risorto è divenuto “la via” (Gv 14,1-12: anno A), una “via nuova e vivente” inaugurata per noi, dice l’Epistola agli Ebrei (10,20); egli è divenuto vite, attraverso la quale i tralci ricevono la vita (Gv 15,1-8: anno B); egli è via e vita perché insegna e consegna ai suoi discepoli il comandamento dell’amore (Gv 13,31-33.34-35: anno C). Non si tratta semplicemente della consegna di una norma, ma della consegna di un modello. La “Gloria” di Dio si è manifestata nel dono di Gesù, e ora può manifestarsi anche nella vita dei suoi discepoli.

Infine, coronamento del tempo pasquale. Nella Pasqua di Gesù è stato dato alla Chiesa il dono per eccellenza, quel dono che rende possibile e attuale ognuno dei doni che abbiamo appena elencato: il dono dello Spirito Santo (VI domenica – Pentecoste). Lo Spirito è il Consolatore, colui che guida i discepoli alla “verità tutta intera” e che “ricorderà” tutto ciò che Gesù ha detto. Nella Bibbia lo Spirito è il “dono” dei tempi messianici, “segno” del compimento delle promesse di Dio. Nel profeta Gioele leggiamo: «Dopo questo, io effonderò il mio spirito sopra ogni uomo e diverranno profeti i vostri figli e le vostre figlie; i vostri anziani faranno sogni, i vostri giovani avranno visioni» (Gl 3,1). Che la Pentecoste sia il compimento e il coronamento del tempo pasquale lo dimostra anche il fatto che il termine “Pentecoste” sia stato usato sia per indicare l’ultimo giorno di questo tempo, sia l’intero periodo dei cinquanta giorni.

Il lezionario di Pasqua, mentre ci annuncia la presenza viva del Risorto nella comunità dei credenti e ci rivela i molteplici volti della Pasqua, delinea anche i tratti irrinunciabili del volto della Chiesa (lettura degli Atti degli Apostoli), le realtà che stanno alla base della sua vita e che le sono state donate appunto dalla vittoria pasquale del suo Signore.

IL PERCORSO NEI TESTI LITURGICI

Dopo aver percorso brevemente il Lezionario del tempo di Pasqua per comprendere l’itinerario che la liturgia ci propone, proviamo ora a scorrere sempre velocemente anche i testi liturgici che il Messale Romano riporta per la celebrazione dell’eucaristia in questo tempo liturgico.

Innanzitutto troviamo i prefazi del tempo di Pasqua che ci presentano il legame tra la Pasqua di Cristo e la vita nuova della Chiesa: «È lui il vero Agnello che ha tolto i peccati del mondo, è lui che morendo ha distrutto la morte e risorgendo ha ridato a noi la vita» (Prefazio I). E ancora: «Per mezzo di lui rinascono a vita nuova i figli della luce, e si aprono ai credenti le porte del regno dei cieli. In lui morto è redenta la nostra morte, in lui risorto tutta la vita risorge» (Prefazio II). Nel Prefazio IV leggiamo: «In lui, vincitore del peccato e della morte, l’universo risorge e si rinnova, e l’uomo ritorna alle sorgenti della vita». Infine merita particolare attenzione il prefazio della solennità di Pentecoste con la quale il tempo di Pasqua si chiude. Il testo del prefazio afferma: «Oggi hai portato a compimento il mistero pasquale e su coloro che hai reso figli di adozione in Cristo tu Figlio hai effuso lo Spirito Santo…». Questo testo liturgico chiama la Pentecoste, e in qualche modo tutto il tempo liturgico che con essa si conclude, compimento della Pasqua. È un riferimento ad Atti 2,1, dove si dice che i discepoli erano riuniti insieme “mentre stava per compiersi la Pentecoste”, che risulta molto importante per comprendere tutto il tempo pasquale come “compimento” del mistero della Pasqua di Gesù nella vita della Chiesa.

Come il lezionario liturgico ci mostra i vari volti della Pasqua e “chi” è divenuto il Cristo Risorto per i suoi discepoli, così i testi liturgici sottolineano principalmente la realizzazione nei credenti del medesimo mistero.

IL TEMPO DELLA “MISTAGOGIA”

Un altro importate aspetto del tempo di Pasqua che la tradizione patristica e liturgica ha fortemente sottolineato è quello della mistagogia. Il tempo di Pasqua è il tempo della mistagogia, cioè il tempo della “intelligenza dei misteri” che si sono celebrati nella notte di Pasqua. Nella Chiesa antica, e in alcuni casi anche oggi, la Veglia pasquale era il luogo proprio della celebrazione dei sacramenti dell’iniziazione cristiana (battesimo – cresima – eucaristia). Proprio perché i sacramenti sono partecipazione alla vittoria pasquale di Cristo, conformazione a lui, il tempo proprio della loro celebrazione non può che essere la Veglia di Pasqua.

Ma dopo la celebrazione dei sacramenti nella Veglia Pasquale, occorreva, e occorrerebbe anche oggi, un tempo di “intelligenza” di ciò che si è vissuto… non certo una intelligenza di ordine razionale, ma una intelligenza più profonda che fa parte integrate della celebrazione stessa del sacramento e che potremmo chiamare interiorizzazione. Il sacramento celebrato nella Veglia di Pasqua, come ha avuto bisogno della Quaresima come preparazione nella conversione, così ha bisogno di un altro tempo, quello della mistagogia per essere fatto proprio, potremmo dire assimilato. Sarebbe importante recuperare l’importanza del “celebrare nel tempo” anche per ciò che riguarda i sacramenti… anche i sacramenti non sono “atti puntuali”, ma hanno bisogno di tempi e spazi “appropriati”. E il tempo nel quale i sacramenti possono “respirare” è proprio il Tempo pasquale nel quale si celebra la forza della risurrezione di Cristo nella vita della Chiesa.

Oggi spesso il tempo di Pasqua è il tempo per la celebrazione della cresima e dell’eucaristia di “prima comunione”… ma quanto è veramente valorizzata la collocazione della celebrazione di questi sacramenti nel Tempo pasquale? Non si finisce a volte per dimenticare il tempo liturgico nel quale ci si trova, quasi come se esso fosse in qualche modo un disturbo e non lo spazio ideale per la celebrazione dei sacramenti?

UN ROVETO CHE ARDE E NON CONSUMA…

Dopo questi brevi cenni sulle caratteristiche principali del tempo pasquale, possiamo concludere con una immagine che ci può aiutare a vivere questo tempo in modo più ricco e profondo. Nella Quaresima, prima parte del ciclo pasquale, la seconda domenica è sempre dedicata al Vangelo della Trasfigurazione. È come se ci fosse una specie di annuncio del tema, o meglio una anticipazione della meta, alla quale tutto questo ciclo liturgico (Quaresima-Triduo pasquale-tempo di Pasqua) intende condurci. Lì, sul monte della Trasfigurazione, nella carne di Gesù si rivela la sua divinità, la sua identità più profonda. La tradizione cristiana ha spesso associato la Trasfigurazione di Gesù al roveto ardente nel quale Dio si rivelò a Mosè sul Sinai. Chi si è recato al monastero di S. Caterina sul Monte Sinai sa che la chiesa del monastero è proprio dedicata al mistero della Trasfigurazione, di cui si riporta nell’abside un antico mosaico.

Al termine del ciclo pasquale questo mistero – il roveto ardente e la Trasfigurazione – è immagine quanto mai indicata per descrivere ciò che la Chiesa vive nel tempo di Pasqua. Come quel fuoco nel quale Dio ha rivelato il suo nome a Mosè ardeva e non consumava, e come la divinità di Gesù nella Trasfigurazione arde nel suo volto ma non consuma, così anche la vita nuova che il Risorto ha donato ai suoi discepoli nella Pasqua ora arde nella vita della Chiesa senza consumare… e attende di ardere in ogni uomo e ogni donna, perché ogni uomo e ogni donna possa diventare luogo nel quale il nome di Dio, la sua gloria, si rivela.
 

(da Testimoni, n. 7, aprile 2007)

qui l'articolo originale

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