Dietro l’ateismo nostalgia della fede?
«Sono un cristiano laico (nel senso di secolare ndr) , se volete potete chiamarmi così». La frase di per sé non sarebbe eclatante se a dirla non fosse stato il più rinomato rappresentante dell’ateismo (militante) nel mondo, il biologo e zoologo inglese Richard Dawkins, che del cristianesimo e soprattutto del cattolicesimo ha scritto e detto le peggiori cose. Partecipando nei giorni scorsi allo Hay Festival, importante kermesse di arte e letteratura in Galles, per presentare il primo volume delle sue memorie, An appetite for wonder (che si può tradurre grosso modo con «Fame di meraviglioso»), Dawkins ha risposto all’intervento dalla platea di un pastore protestante che ha detto di non credere più nei miracoli e nella risurrezione di Gesù, ma di considerarsi ugualmente cristiano, continuando a predicare il Vangelo.
«Mi descriverei come un cristiano laico, come quegli ebrei laici che hanno un senso della nostalgia e delle cerimonie» sottinteso della propria religione, è stata la replica di Dawkins. Che ha aggiunto, rivolto al suo interlocutore,: «ma se lei non ha il senso del soprannaturale, non capisco come possa continuare a ritenersi un pastore».
Dawkins è cresciuto in una famiglia anglicana e ha sempre detto di aver optato per l’ateismo in gioventù dopo aver incontrato la teoria dell’evoluzione di Darwin.
Allo Hay Festival non ha accennato a esperienze traumatiche vissute in gioventù riguardo a Dio o alla fede, ha accennato però a manifestazioni della violenza umana che lo hanno segnato. Come il bullismo, si presuppone feroce, di cui fu vittima un ragazzo della sua scuola, negli anni della formazione trascorsi in Zimbabwe, che gli lasciò il terrore di entrare più tardi in circoli universitari, dove vigevano e vigono ancora iniziazioni umilianti, e di aver portato con sé il rimorso per non essere intervenuto davanti a certi soprusi quando avrebbe potuto farlo.
I teisti hanno spesso posto Dawkins un quesito: come giustificare il perseguimento del bene, o il rifiuto del male, in una visione del mondo totalmente deterministica e materialistica. Come fondare insomma quella morale di cui lo stesso Dawkins ha sempre difeso, direttamente o indirettamente, la necessità. Cosa che ha fatto anche in quest’ultima uscita pubblica, quando ha detto di essersi pentito di aver intitolato il suo maggior bestseller «Il gene egoista», per le speculazioni anche «politiche» che sono state fatte su quella che è passata come una apologia dell’egoismo.