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Responsabilità sociale d’impresa: una “buona” strategia

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Chiara Santomiero - Aleteia - pubblicato il 28/05/14
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La gestione degli aspetti non economico-finanziari aiuta a migliorare la competitività sul mercatoLa crisi finanziaria iniziata nel 2008 nei Paesi occidentali ha segnato solo l'inizio di un periodo di grande difficoltà per migliaia di famiglie, legata alla perdita del posto di lavoro e al contrarsi del potere di spesa, ma allo stesso tempo ha messo in discussione modelli della società civile, di welfare e anche di strategie aziendali. In tale contesto si parla sempre più spesso di tornare all'economia "reale", di riaffermare il ruolo di Stati e Governi nel mercato, di tracciare nuove regole basate su "valori morali" e orientate alla creazione di un valore condiviso. Sembrerebbe un messaggio del mondo del non profit e invece a parlare è Marina Migliorato, responsabile CSR (Corporate Social Responsibility) di Enel che Aleteia ha incontrato in occasione del convegno-tavola rotonda "Fare impresa sociale sostenibile. Realtà o illusione?", organizzato a Roma dall'Ucid (Unione cristiana imprenditori dirigenti).
 
"Corporate Social Responsability": in cosa consiste il suo lavoro?
 
Migliorato: Il nostro lavoro oggi è rivolto sempre più a integrare gli obiettivi di sostenibilità all’interno della strategia aziendale e dei principali processi e a consolidare le attività di monitoraggio e rendicontazione dei fattori non economico finanziari. Politiche di value proposition, di trasparenza, anti-corruzione, di rispetto dei diritti umani, gestione delle relazioni con le comunità e i gruppi di interesse, l'attenzione all'ambiente, l’integrazione dei fattori di ESG (Economic, Sociale e Governance) nella catena di fornitura: tutto questo e molto altro è il mestiere di chi fa corporate social responsability. Tutte queste attività non le facciamo da soli: abbiamo un ruolo di coordinamento e di condivisione della cultura, dei valori, degli obiettivi in maniera trasversale nei diversi processi aziendali per essere meno vulnerabili al rischio e soprattutto per svolgere un ruolo proattivo nella società in cui viviamo che ci permette, quindi, di essere più competitivi.
 
In che modo occuparsi di responsabilità sociale migliora la competitività dell'azienda?
 
Migliorato: Pensiamo, ad esempio, alla politica della gestione della diversità in azienda, una diversità che può essere di genere, di età, di abilità, di culture. In un'azienda come Enel presente in 40 Paesi con differenti culture e lingue la gestione di tali temi diventa un “must” e permette all’azienda di essere maggiormente competitiva e produttiva. Gli investitori, infatti, ci chiedono di rendicontare questi fattori, non per misurare quanto siamo "buoni", ma per valutare la capacità di gestione di aspetti che nel lungo periodo, se trascurati, provocano un abbassamento della produttività e una minore attrattività di talenti che incide sulla capacità di innovazione dell'azienda. Il mio lavoro garantisce una cabina di regia che mette in relazione i diversi processi presenti in azienda. Un'azienda, infatti, è organizzata per dipartimenti – ambiente, sicurezza sul lavoro, risorse umane e così via – che lavorano secondo processi verticali. Il compito della cabina di regia è anche quello di individuare le priorità da inserire nel piano strategico e industriale dell’azienda e permettere un’integrazione orizzontale dei diversi processi.
 
Perchè, come lei ha sottolineato, oggi nell'indice di valore delle imprese si è capovolta la proporzione di rilevanza degli aspetti di responsabilità sociali (80%) rispetto a quelli economico-finanziari (20%)?
 
Migliorato: Un esempio può aiutarci a capire. Quanto è importante per ciascuno di noi il denaro e quanto sono importanti le cose intangibili? Come persone ci realizziamo nella vita – diciamo nel medio-lungo periodo – se c'è un'armonia tra la parte economica e il benessere intorno a noi. Questa proporzione è identica nelle aziende. Le aziende sono fatte di singoli e non sono diverse da loro. Le aziende che vogliono competere sul mercato e durare nel tempo, devono incorporare dentro la propria offerta di servizi o di prodotti sul mercato anche i fattori non economico-finanziari. Probabilmente nella vecchia maniera di fare impresa i manager prendevano le stock options e poi chiudevano – è ciò che è accaduto con Lehman Brothers e molti altri –, ma le imprese che stanno sul mercato da decenni, con un brand consolidato e capacità di produrre valore, sono aziende che si occupano e preoccupano di questi aspetti. Tutto ciò che non si modifica, cambia e si non innova, muore, come succede per un corpo umano.
 
La visione d'impresa che si occupa di bene comune secondo dei principi di solidarietà – lei ha affermato – è un modello tipicamente italiano, che però non riesce ad affermarsi ed essere esportato: come mai?
 
Migliorato: A livello internazionale, all'Onu o alla Commissione europea, si parla e si discute sempre più di inclusione sociale e di innovazione sociale come strumento principale. Per noi italiani questi concetti sono chiarissimi ma nelle altre culture è necessario spiegarli. La solidarietà appartiene alla nostra identità culturale: il nostro è un Paese fondato sul cattolicesimo che ha permeato il modo di percepire la realtà intorno a noi con i valori familiari e l'attenzione a chi ha di meno. Possiamo dire che i valori familiari facciano parte del nostro Dna: non serve spiegarlo con un convegno. Tuttavia non riusciamo a fare il "packaging" del nostro modello individuando strategie di marketing e promuovendo studi, come magari fanno i francesi con la "grandeur" che li identifica. In una società "liquida" come quella descritta da Baumann la capacità di connettività tipica dell'Italia dovrebbe essere valorizzata. Invece restiamo chiusi nel nostro ambito e fuori non c'è la percezione della grande valenza culturale del nostro Paese, al di là dei beni culturali in senso stretto. Tutto ciò che non si descrive e non si misura, è come se non esistesse e se il nostro Paese non si racconta…
 
 
 

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