Il vaticanista Fabio Zavattaro illustra l’“effetto Francesco”“I segreti di un successo” è il sottotitolo del libro del vaticanista Fabio Zavattaro “Stile Bergoglio, effetto Francesco” (San Paolo), che analizza i motivi del grande riscontro che papa Francesco ha saputo guadagnarsi in poco più di un anno di pontificato.
La sua, spiega l’autore, è una vera e propria “rivoluzione” che nasce dal “gesto di grande umiltà” compiuto da papa Benedetto XVI con la sua rinuncia al soglio pontificio, che ha aperto la porta al “pontificato luminoso e travolgente” del suo successore, chiamato “quasi dalla fine del mondo”, come ha detto lui stesso poco dopo la sua elezione, a governare la Chiesa il 13 marzo 2013.
Nella prefazione al testo, lo storico Alberto Melloni spiega che quella aperta dalla rinuncia di papa Ratzinger e dall’elezione di papa Bergoglio è “una primavera della Chiesa, sbocciata in un tempo e in uno spazio che ne conoscono poche”.
Papa Francesco, scrive Melloni, è amato “non come una star, ma come il prete che tutti vorrebbero aver incontrato, almeno una volta, in quel giorno preciso della loro vita, dove una parola e un volto avrebbero assorbito il dolore di vivere e la pena della solitudine”. “Quello che Zavattaro ci racconta è davvero un uomo ‘beato’ nel senso più profondo: che fa beato chi incontra, perché uomo ‘risolto’”, “perché non sembra aver fatto altro che il papa in vita sua, e che fa il papa come se non avesse mai smesso di fare il prete”.
“Non semplicemente un ‘gesuita’, espressione incrostata di una sottile patina di denigrazione, ma il militante di una ‘compagnia’ che non sa vivere senza di essa e che per questo motivo (‘psichiatrico’, dirà con qualche autoironia) toglie la sacralità tabernacolare al Palazzo per antonomasia, e si ritaglia una stanza nella pensioncina di Santa Marta. Un papa che abroga il rituale del capo di Stato, trasforma il Vaticano in una parrocchia, ne diventa il parroco e celebra, predica, prega, ringrazia, come ogni buon cristiano che non ha fretta di scappar di chiesa dopo la liturgia”.
Quelle introdotte da Jorge Mario Bergoglio sono “piccole novità che saltano subito agli occhi e che diventano segreti di un successo”, scrive Zavattaro. “È il papa che ha voluto dare anche con i gesti, le parole semplici, le scelte controcorrente, e perché no, anche con le telefonate, uno scossone alla chiesa, alle comunità dei credenti”.
Il pontefice “si mette ‘in cammino’ con il suo popolo: ecco uno dei segreti del suo successo. Sobrietà, solidarietà, umiltà diventano le parole chiave del suo ministero. È lontano dai protocolli e dagli sfarzi. L’arcivescovo non ha bisogno di limousine, sale sul bus, prende la metropolitana, non disdegna la bicicletta. Respira il lezzo delle villas miserias, le bidonville della capitale argentina. Lava i piedi ai malati di AIDS, tuona contro quei preti ipocriti che ‘allontanano il popolo di Dio dalla salvezza’, negando il battesimo ai figli ‘di ragazze sole che non hanno concepito nel matrimonio’. Non si stanca di puntare il dito contro quella che chiama ‘mondanizzazione spirituale’. Il rischio più grande per la chiesa – dice ricordando le parole di Henri-Marie de Lubac, cardinale e uno dei più grandi teologi del Novecento – è ‘quello di essere autoreferenziale come molte persone di oggi, divenute paranoiche e autistiche, capaci di parlare solo a loro stesse’”.
Per queste sue scelte è attaccato, “e le accuse arrivano anche nei sacri palazzi vaticani: non difende la dottrina, battezza bambini nati al di fuori del matrimonio. Lui non si impensierisce più di tanto: alcuni sacerdoti, dirà, pensano ‘dalla cintola in giù’, ossessionati dai temi della morale sessuale”.
Se per Karol Wojtyła il verbo più adatto era “vedere”, perché “si andava a vedere Giovanni Paolo II”, e per Joseph Ratzinger era “ascoltare”, perché si andava “ad ascoltare Benedetto XVI”, il verbo che più si adatta a Jorge Mario Bergoglio è per Zavattaro “toccare”, perché “oggi si va a toccare Francesco”.
Mentre Benedetto XVI aveva indicato come suo programma quello di seguire la volontà del Signore, sottolinea l’autore, Francesco prende come punto di riferimento Giuseppe, “colui che custodisce con fedeltà”. “Quel verbo, ‘custodire’, diventa la chiave di lettura dell’impegno di papa Bergoglio, che subito precisa come Giuseppe esercita la custodia: ‘con discrezione, con umiltà, nel silenzio, ma con una presenza costante e una fedeltà totale, anche quando non comprende’. Ancora, Giuseppe vive questa sua vocazione di custode ‘nella costante attenzione a Dio, aperto ai suoi segni, disponibile al suo progetto, non tanto al proprio’”.
L’altro grande modello è Francesco d’Assisi, del quale ha scelto il nome. “Nell’elezione”, ha ricordato il papa, “avevo accanto a me l’arcivescovo emerito di San Paolo e anche prefetto emerito della Congregazione per il Clero, il cardinale Cláudio Hummes: un grande amico. Quando la cosa diveniva un po’ pericolosa, lui mi confortava. E quando i voti sono saliti a due terzi, viene l’applauso consueto, perché è stato eletto il papa. E lui mi abbracciò, mi baciò e mi disse: ‘Non dimenticarti dei poveri’. E quella parola è entrata qui: i poveri, i poveri. Poi, subito, in relazione ai poveri ho pensato a Francesco d’Assisi. Poi, ho pensato alle guerre, mentre lo scrutinio proseguiva, fino a tutti i voti. E Francesco è l’uomo della pace. E così, è venuto il nome, nel mio cuore: Francesco d’Assisi. È per me l’uomo della povertà, l’uomo della pace, l’uomo che ama e custodisce il creato”.
“La sfida dell’emarginazione e della povertà, la sfida complessa della globalizzazione: ecco il terreno sul quale il cardinale Bergoglio chiama la chiesa ad essere in prima linea”, sottolinea Zavattaro. Spetta anche ai fedeli raccogliere il suo invito per essere autentici discepoli di Cristo.