L’invito rivolto dal Papa a Shimon Peres e Abu Mazen alza l’asticella dell’impegno delle religioni per la pace
Dura solo tre giorni questo viaggio di Papa Francesco in Terra Santa, ma alla fine del secondo lascia già stupefatti per la densità di parole e gesti messi in campo. Tra i tanti aspetti, però, credo valga la pena di soffermarsi già a caldo sulla portata dell’invito rivolto oggi al presidente palestinese Abu Mazen e a quello israeliano Shimon Peres: siete uomini di pace – ha detto loro in sostanza Bergoglio – ma in questa Terra Santa la pace non si vede; e allora vi apro le porte della mia casa a Roma e facciamo quello che gli uomini di fede possono fare insieme: preghiamo per la pace.
Si tratta di un invito dalla forza straordinaria, probabilmente preparato dietro le quinte alla vigilia di questo pellegrinaggio (e infatti entrambi hanno fatto filtrare la propria disponibilità ad accoglierlo in tempi rapidissimi). Ma è soprattutto un gesto che – anche al di fuori del Medio Oriente – dice una serie di cose importanti sul tema della pace.
Intanto è un gesto controcorrente: oggi tutte le diplomazie fuggono dal conflitto israelo-palestinese; l’ultimo in ordine di tempo è stato il segretario di Stato americano John Kerry, che ha appena tirato i remi in barca dopo l’ennesima tornata di negoziati infruttuosi. Fuggono i diplomatici perché sanno che con la questione Israele/Palestina ci si scotta le mani. Ma non fuggono solo loro: la stessa opinione pubblica ha fatto parecchi passi indietro negli ultimi anni nell’attenzione a questo conflitto. Siamo tutti stufi di questa storia che va avanti sempre uguale e allora preferiamo guardare da un’altra parte dicendo sostanzialmente: «Non volete mettervi d’accordo? Allora sbrigatevela voi…». Proprio in questo momento Papa Francesco al contrario dice: «Venite a casa mia». Ha il coraggio di porsi nel mezzo.
Mentre lo ascoltavo mi venivano in mente le parole che tante volte il cardinale Carlo Maria Martini – un uomo che amava profondamente la Terra Santa – ha detto su questo conflitto: serve la preghiera di intercessione – spiegava -, quella di chi non fa il tifoso ma si assume la responsabilità di mettersi nel mezzo, esponendosi in prima persona e caricandosi sulle spalle i pesi di entrambi. Ecco: proprio questo è ciò che Papa Francesco ha chiesto oggi da Betlemme prima e da Tel Aviv poi. Ha rivolto un invito ad Abu Mazen e Shimon Peres, certo. Ma ha detto anche una cosa importante a tutti noi: tu che cosa sei disposto a mettere a disposizione per costruire la pace? Quale porta della tua vita sei disposto ad aprire? La pace costa, la pace ha sempre un prezzo. Siamo disposti a mettere in gioco qualcosa di nostro per la pace altrui?
Ma c’è anche un altro aspetto interessante: nei primi commenti di oggi mi pare sia prevalsa l’analisi politica di questo appello. Lo si è visto sostanzialmente come un tentativo di far ripartire il negoziato tra israeliani e palestinesi, giunto a un punto morto. Credo però che si sia sottovalutato un elemento: il Papa non ha invitato in Vaticano Abu Mazen e Shimon Peres per discutere dei problemi aperti. Certo, se l’incontro – come sembra probabile – avverrà, ci sarà anche questo. Ma Bergoglio ha detto espressamente: vi apro le porte di casa mia per pregare con me per la pace. Si tratta di un gesto che – a mio avviso – porta lo spirito di Assisi un passo avanti. Intanto credo che non sfugga la portata simbolica dell’invito a un ebreo e a un musulmano a pregare insieme al Papa nel luogo simbolo per eccellenza del cristianesimo.
Ma qui c’è soprattutto un azzardo ulteriore: l’ebreo e il musulmano in questione non sono leader religiosi, ma personalità politiche che sono anche uomini con la loro fede. È una commistione in qualche modo rivoluzionaria: proprio là dove più che in ogni altro posto c’è chi sfrutta politicamente la religione per dividere, degli uomini politici di Paesi nemici e di religioni diverse sono invitati a ritrovarsi insieme a pregare per la pace. E non per un bel gesto folkloristico o in funzione di uno scatto fotografico da pubblicare ovunque. Ma per dire che anche la politica – se vuole davvero andare oltre i muri – deve tornare a guardare davvero in alto. Non a caso oggi di fronte a «quel» muro a Betlemme Papa Francesco non ha gridato; non ne ha neppure parlato nei suoi discorsi. Ha scelto anche lì il registro della preghiera. Serve proprio ricordarlo che la Terra Santa è uno specchio anche di altre contraddizioni del mondo di oggi? E che forse questo stesso discorso vale anche per tanti altri muri, a noi più vicini?
Da anni mi occupo di Terra Santa. E da anni vado scrivendo che uno dei problemi di questo conflitto infinito sono quelli che dicono che «sarebbe tutto facile se a Gerusalemme non ci fossero tutti questi religiosi». A loro ho sempre risposto che potevano preparare tutte le road map che volevano, ma a Gerusalemme non potranno mai portare una pace che non sia anche santa. Con questa mossa coraggiosa Papa Francesco si è esposto in prima persona per provare a costruirla. Siamo disposti anche noi a fare altrettanto?