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Il pericolo dell’“ateismo soft”

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mons. Robert Barron - pubblicato il 26/05/14
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L’esperienza religiosa è davvero solo una forma di psicosi?È apparso da poco sulle pagine del New York Times uno scambio di idee molto istruttivo tra Gary Gutting, professore di Filosofia alla Notre Dame University, e Philip Kitcher, docente di Filosofia alla Columbia University.

Kitcher si descrive come un difensore dell'“ateismo soft”, che significherebbe un ateismo più lieve della versione polemica difesa da Richard Dawkins e Christopher Hitchens. A differenza di questi colleghi, Kitcher ammette che la religione possa avere un ruolo eticamente utile in una società prevalentemente laica. Non entrerò nel merito di questo aspetto del pensiero di Kitcher, perché ho già esplorato la riduzione kantiana della religione all'etica in altri testi, ma vorrei richiamare l'attenzione su un aspetto particolare di questa intervista, che mostra con notevole chiarezza uno dei malintesi fondamentali sulla religione, piuttosto comune tra gli atei.

Kitcher ha dichiarato di considerare la dottrina religiosa non credibile. Esortato a fornire una spiegazione di questo atteggiamento un po' esagerato, ha sottolineato la straordinaria pluralità di dottrine religiose: cristiani, ebrei, induisti, musulmani, animisti, ecc., tutti con visioni radicalmente diverse sulla realtà, il divino, il proposito umano nella vita. E visto che tutte le religioni si basano fondamentalmente sullo stesso elemento, quello di una rivelazione presentata a nostri antenati già molto distanti, non c'è alcun mezzo razionale per ponderare queste differenze. L'unico motivo reale del fatto che io sia cristiano, direbbe lui, è il fatto di essere nato da genitori cristiani che mi hanno trasmesso le storie chiave del cristianesimo. Se tu sei ebreo, musulmano o induista e hai storie chiave diverse dalle mie, non c'è un modo ragionevole in cui io ti possa convincere, né tu possa convincere me. È il tuo mito contro il mio. Questa è ovviamente una variante della visione illuminista: la religione positiva sarebbe irrazionale, e quindi inevitabilmente violenta, con la possibilità di sostituire una religione con un'altra che dipende soltanto dalla forza bruta.

Il problema fondamentale è che Kitcher ignora totalmente il ruolo decisivo svolto dalla tradizione religiosa nello sviluppo e nella ratifica della dottrina. È vero che la religione si basa, in generale, su eventi fondamentali, ma queste esperienze non sono semplicemente trasmesse in silenzio di generazione in generazione. Al contrario, sono scandagliare e testate, in un processo complesso di ricezione e assimilazione. Sono paragonate ad altre esperienze simili; sono analizzate in modo razionale; sono poste in discussione e contrastate con quello che sappiamo del mondo in base ad altre fonti; sono sottoposte a indagine filosofica; i loro “strati” di significato sono scoperti attraverso conversazioni che si sviluppano nel corso di centinaia e addirittura migliaia di anni; le loro implicazioni comportamentali ed etiche sono sminuzzate e valutate costantemente.

Usiamo un esempio biblico per illustrare il funzionamento di questo processo. Il libro della Genesi ci dice che il patriarca Giacobbe una notte sognò che gli angeli salivano e scendevano da una grande scala, che aveva base sulla terra e si estendeva fino al cielo. Quando si svegliò, dichiarò che il luogo in cui aveva dormito era santo e lo consacrò con un altare. La tradizione ha accolto questa storia e ne ha tratto implicazioni che propongono questioni metafisiche e spirituali profonde: l'essere finito e l'Essere Infinito sono intimamente legati l'uno all'altro; ogni luogo è potenzialmente un luogo di incontro con il potere che sostiene il cosmo; c'è una gerarchia nella realtà creata e nella sua relazione con Dio; adorare Dio è incoraggiante per gli esseri umani, e così via.

Queste conclusioni derivano dal processo di “scandagliamento” al quale mi sono riferito e forniscono la base per qualcosa che Kitcher e i suoi ritengono inammissibile: la possibilità di argomentazione concreta sulla religiosità. Non è una semplice questione di contrapporre storie antiche le une alle altre; è una questione di analizzare e paragonare questa eredità con l'esperienza.

E quando questo accade tra interlocutori di tradizioni religiose diverse, se sono persone intelligenti e di buona volontà, si possono ottenere grandi progressi. Le parti di questa conversazione possono scoprire un numero notevole di verità in comune, punti di contatto tra dottrine che sembravano in totale disaccordo, oltre a insegnamenti che sono, di fatto, reciprocamente escludenti. Anche per quanto riguarda i punti di discordia, però, si possono ancora proporre, da entrambe le parti, molte argomentazioni autentiche.

Quello che mi infastidisce nella proposta di Kitcher è il fatto che egli releghi tutte le religioni all'ambito del meramente irrazionale. È interessante notare che varie volte, nel corso dell'intervista, egli paragona l'esperienza religiosa alle esperienze delle persone che soffrono di psicosi. Ciò indica il pericolo reale di una visione di questo tipo: una società dominata da un ateismo “soft” come quello di Kitcher può tollerare le persone religiose per un certo periodo, ma a un certo punto le emarginerà o addirittura proporrà di ricoverarle per follia. Se ritenete quest'ultimo elemento paranoico, riguardate la politica dell'Unione Sovietica relativamente a quanti non concordavano con l'ideologia imposta.

A metà del XIX secolo, John Henry Newman ha lottato tenacemente per difendere la razionalità delle rivendicazioni religiose. L'intervista di Kitcher e i voluminosi scritti dei suoi alleati intellettuali mi fanno pensare che la stessa battaglia debba essere combattuta anche oggi.

[Traduzione a cura di Roberta Sciamplicotti]

 

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