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Neuroetica: per ridefinire i confini di mente, libertà e verità

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Emanuele D'Onofrio - Aleteia - pubblicato il 20/05/14
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Il primo convegno internazionale su questa nuova disciplina, che attraversa i campi fondamentali dell’umanoSe, come è vero, tutto cambia intorno a noi ad una rapidità a cui la percezione umana non è mai stata abituata, allora il modo per continuare a capire e a capirsi è quello di imparare quali sono le nuove domande. Il convegno Uno sguardo da quale mente? La prospettiva neuroetica che si è svolto presso l’Università di Padova nei giorni scorsi, organizzato dalla Società Italiana di Neuroetica, in questo senso, ha segnato un grande passo per la comunità scientifica italiana, perché è stata la prima espressione di neuroetica qui da noi. Sono stati coinvolti nomi davvero importanti, da Diego Marconi, tra i maggiori filosofi viventi, a Michael Gazzaniga, uno dei padri di queste discipline. E quanto sia caldo questo tema, proprio perché ci interroga e ci chiede di interrogarlo per comporre l’unica Verità, lo ha spiegato a noi di Aleteia padre Paolo Benanti, docente di Neuroetica presso la Pontificia Università Gregoriana.

Ci può chiarire cosa sia la neuroetica?

Benanti: Per neuroetica s’intendono due cose complementari ma distinte: l’etica delle neurotecnologie, e quindi quali sono i problemi etici, legali e sociali nell’utilizzo delle nuove tecnologie, ma anche neurologia dell’etica, cioè cosa le neuroscienze dicono sul fatto che noi ci percepiamo e ci capiamo liberi, consapevoli e responsabili. Da qui nascono una serie di problemi per ogni ambito. Il più grande problema per quanto riguarda le neuroscienze dell’etica è se le neuroscienze confermano, negano o mettono in dubbio alcune certezze che noi abbiamo sulla mente e sull’essere umano. Domande quali: siamo realmente liberi? Controlliamo noi stessi? Siamo semplicemente un prodotto del cervello? La mente non esiste? La responsabilità è semplicemente uno stigma sociale e niente più? Sono le domande più urgenti che pongono le neuroscienze dell’etica. Di contro siamo in grado di avere strumenti neurotecnologici sempre più potenti: si pensi alla Deep Brain Stimulation, alla capacità di leggere lo stato del cervello, alla capacità di interagire col cervello attraverso sostanze chimiche e dispositivi di vario tipo. Allora la domanda da porsi è “how much is too much?”, cioè fino a punto possiamo mettere le mani sull’uomo, fino a che punto possiamo alterare noi stessi. Siamo in grado con strumenti neurotecnologici di alterare il modo in cui una persona vive, percepisce se stessa, percepisce il mondo, e questo primo grande bivio è denso di domande: quello che crediamo vero è ancora vero? E soprattutto, quello che sappiamo fare lo possiamo fare?

Da quale domanda è partito il convegno?

Benanti: La provocazione viene dal dialogo sulla mente estesa, cioè sull’idea se la mente sia qualcosa solo d’interno all’uomo o se appartengono alla mente anche tutta una serie di altre cose non solo corporee, ma anche del mondo esterno. Parliamo anche delle cosiddette protesi tecnologiche, quelle che fanno più scalpore. Pensiamo ai Google glass per esempio: se è vero che cambiano la cognizione la cambiano perché, qualcuno dice, è proprio la mente che è impastata del mondo esterno all’uomo. In realtà, volendo semplificare un po’, io penso innanzitutto che dietro ci sia una non ben definita nozione di cognizione, perché se conoscere è far sì che qualcosa che sta fuori di me entri, allora è evidente che ha a che fare con me qualcosa che è nel mondo esterno. Ciò non vuol dire che la mia mente sia nel mondo esterno.

E il concetto di etica come ne è uscito da questa conferenza?

Benanti: Noi abbiamo strumenti che ci permettono di vedere cose che prima non si vedevano: una risonanza magnetica funzionale, per esempio, ci permette di vedere quali parti del cervello lavorino e in che maniera durante una nostra attività. Di fronte a questi strumenti che ci fanno vedere cose che accadono nel nostro corpo che non vedevamo prima, è chiaro che la “comunità” si scinde sul loro significato. C’è una corrente che dice che quello che vediamo è tutto ciò che esiste e niente più, e li potremmo definire riduzionisti, per i quali la mente scompare e rimane solo il cervello. Per altri invece proprio quello che vediamo ci dice che deve esistere qualcosa di più, che non basta il cervello. E quello che rimane veramente irrisolto, perché non è solo una questione di neuroscienze, è quella differenza che ci può essere tra noi e una macchina. Io grazie alle neuroscienze so come funziona tutto il sistema di segnalazione del corpo: ad esempio, so che se mi fa male un dente, io riesco a vedere tutto l’apparato che si accende, che non è molto diverso da una spia di un hard-disk che si illumina quando lavora. Però se tutto oggi l’hard-disk ha lavorato, quindi la spia è rimasta accesa, e se tutto oggi il dente mi ha fatto male, per il computer è indifferente, mentre io posso dire che è stata una pessima giornata. Allora c’è un quid di differenza tra me e la macchina, perché io non sono solo quei circuiti, il computer non dirà mai “è una pessima giornata”.

Ma ampliare il concetto di verità non vuol dire anche relativizzarlo?

Benanti: Possiamo applicare il termine “verità” a tante cose. È vero che tre più tre fa sei, ma è altrettanto vero l’amore che una mamma prova per il figlio. Che cosa vuol dire? Che io sto usando il termine verità in maniera analogica. Allora ci sarà una anche una verità antropologica che non è una verità neuroscientifica. Inoltre, sarà vero che alcune parti del mio cervello “funzionano” in una certa maniera, ma la verità della mia esistenza non coincide con la verità del mio cervello. Allora, così come io uso il termine vero in maniera analoga, non devo aver paura di alcune rifrazioni di questa verità. In altri termini, per usare un’immagine di papa Francesco nell’Evangelii Gaudium, è come guardare un prisma, che scompone la luce che è unica in tante frequenze diverse. Ma sono tutte rifrazioni della stessa verità.

Non può succedere che due verità diverse si contraddicano?

Benanti: Le posso dire per esempio che se noi prendiamo la fisica delle particelle, c’è una verità che ci dice che l’elettrone è energia, e un’altra che ci dice che l’elettrone è un corpuscolo. Quando le verità si contraddicono ci rivelano che sono verità parziali. Ben vengano quelle verità che si contraddicono, perché ci dicono che c’è una verità più grande da scoprire. E questo nel campo della fede è una verità che risuona molto bene rispetto a quello che vogliamo dire quando diciamo che Cristo è “via, verità e vita”. Quindi, queste discipline che si costituiscono come visioni prospettiche di una parte della verità, se ricordano al loro interno che sono visioni di una parte della realtà non commettono errori di tipo riduzionistico. Se le discipline pensano di essere il tutto della verità, allora lì c’è il problema. Dal punto di vista della fede, noi credendo a una creazione che è opera di Dio, siamo convinti che qualunque sia l’approccio alle singole verità, queste non possono che ricondurre, e farci nascere una domanda, sulla Verità con la “V” maiuscola.
 

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