Una sfida non facile, specialmente con le nuove generazioni
Trasmettere la fede, specialmente alle nuove generazioni, appare oggi una sfida tutt’altro che facile: è come se la gioia e la bellezza, che il credente sperimenta nel suo lasciarsi amare da Dio, siano tradite da ogni parola che cerchi di esprimerle, specialmente se da parte dell’interlocutore, cui ci si rivolge, non c’è il desiderio o almeno la curiosità di conoscerle. L’indifferenza alle grandi domande, cui la fede aiuta a dare risposta, è una delle cause di questa difficoltà di trasmissione, accresciuta da un contesto culturale dove il fruibile e l’immediato appaiono più importanti di ciò che può essere raggiunto in tutta la sua ricchezza solo a prezzo di sacrificio e di perseveranza. L’effimero sembra primeggiare sull’intero orizzonte e l’eterno impallidire davanti all’attimo che fugge.
Tuttavia sarebbe sbagliato avere una visione pessimistica delle possibilità di trasmettere ad altri, oggi, il dono dell’amore di Dio, conosciuto e sperimentato nella fede: se è vero che il nostro cuore è fatto per Colui che ci ha creati a sua immagine e ci ha redenti nel suo Figlio, fatto carne per noi, si può ritenere col grande Agostino che il collaboratore dell’Altissimo sia proprio quel cuore inquieto che pulsa nella sua creatura. La difficoltà non sta allora tanto nei due poli presi in sé – l’origine divina e il destinatario umano del dono della fede –, quanto nell’individuare le modalità giuste a creare il rapporto, e perciò i segni e i linguaggi più adatti, e nel chiarire le motivazioni di amore gratuito, che solo possono ispirare una feconda trasmissione della fede.
Sollecitato da questo insieme di problemi e di attese, ho avuto più volte occasione di riflettervi in questi anni in cui la Chiesa universale è particolarmente impegnata sul grande tema dell’evangelizzazione e l’educazione alla vita e alla fede delle nuove generazioni appare priorità ineludibile per tutti i credenti. È così che sono nati i testi qui selezionati, raccolti per offrire una riflessione, il più possibile organica, teologicamente documentata e vicina alla vita, sulle sfide e le possibilità connesse al compito di trasmettere la fede, accolta nell’assenso libero della mente e del cuore. Il risultato è quello di una sorta di “teologia militante”, nata dal vissuto ecclesiale per dare ad esso al tempo stesso voce e alimento nell’impegno della comunicazione della fede.
Volendo riferirmi a un’icona in grado di compendiare quanto queste pagine vorrebbero dire, non esiterei a scegliere quella del profeta Elia, il testimone di Dio nel tempo dell’apparente sconfitta di Dio. Il suo nome esprime già il messaggio della sua opera: Ēlî, “mio Dio”, e Jâ, evocazione dell’indicibile Signore, formano la confessione “il mio Dio è Dio”! Elia vive alla presenza di Dio e per lui, dimostrando in tutto ciò che è e fa che a Dio solo è dovuta fiducia e obbedienza. L’intera sua missione punta a far comprendere come la vera tentazione dell’uomo non sia l’ateismo, ma l’idolatria, e come l’unica cosa che veramente conti sull’orizzonte dell’Eterno sia la fede, vissuta e testimoniata agli altri nell’amore. È così che Elia appare sin dalla sua vocazione: «A lui fu rivolta questa parola del Signore: Vattene di qui, dirigiti verso oriente; nasconditi presso il torrente Cherit…» (1 Re 17,2ss.). Si tratta di lasciare ogni certezza per andare verso Dio, oriente luminoso della vita, e vivere in un abbandono totale al Signore. Fedele a questa vocazione, nell’ora drammatica dello scontro con i falsi profeti, adoratori degli idoli e distributori di certezze effimere, Elia non teme di rischiare tutto per proclamare che solo Dio è Dio. In ciò che avviene sul monte Carmelo (cf. 1 Re 18) la posta in gioco è la purezza della fede nell’unico Dio vivente. È l’ora della fede provata. L’idolatria rassicura, perché l’idolo è manipolabile, mentre il Dio vivo è libero, imprevedibile, sovversivo, e proprio così vincitore di tutte le presunzioni umane. La vittoria sui falsi profeti non basta, però, a fermare la sete idolatrica del popolo e dei potenti che lo governano, accende anzi nuovo odio verso il profeta del Dio unico.
Comincia allora per Elia il pellegrinaggio nella notte della fede verso la teofania dell’Oreb, il monte santo (cf. 1 Re19,1-18), metafora del pellegrinaggio della vita verso l’esperienza di Dio. Il punto di partenza è la debolezza del profeta, scosso da domande profonde: il suo è il dolore di non riuscire a trasmettere la fede a un popolo che ha conosciuto Dio e l’ha abbandonato, nonostante i segni di misericordia e di potenza ricevuti. Elia è impaurito e stanco: la sua sofferenza nasce dal constatare quella che gli sembra la sconfitta di Dio nel cuore del suo popolo. Il profeta cerca il Signore nel deserto (in ebraico midhbār), luogo per eccellenza della parola (in ebraico dābhār). Ed è nel deserto che Elia apprende la grammatica della fede nel Dio, che gli parla in segni umilissimi: un pane per nutrire le forze nel cammino, un orcio d’acqua per dissetarsi. È lì che il profeta impara ad accettare i tempi di Dio, perseverando nel cammino fino a giungere al monte santo, dove incontrerà il Signore nell’ascolto della voce di un silenzio sottile. Il silenzio di Dio purifica la fede dalle troppe parole, invita alla resa, fa superare il dominio della ragione assoluta, per aprire il cuore all’ascolto, all’adorazione, alla fiduciosa testimonianza ad altri del dono ricevuto, perché anch’essi l’accolgano secondo i tempi e i momenti della libertà e della Grazia. Proprio così, l’incontro con Dio si rivela la vera sorgente della fede e della sua trasmissione, che non si ferma davanti alle resistenze, alle chiusure o ai silenzi, ma offre a tutti, a tempo e fuori tempo, la bellezza del dono.
Esplicitando l’esperienza della fede e della sua trasmissione, densamente significata dalla vicenda di Elia, il libro muove dalle sorgenti della fede, e cioè anzitutto da quell’esperienza, da cui nacque il movimento cristiano nella storia, che fu l’incontro col Risorto, vivente di vita nuova (capitolo 1), reso attuale in ogni tempo dall’azione dello Spirito Santo, soggetto trascendente della trasmissione della fede (capitolo 2). Nella concretezza della storia la fede è trasmessa dalla Chiesa, nell’insieme di tutte le sue componenti (capitolo 3). Il tema della comunicazione della fede (la fede trasmessa) è poi approfondito attraverso l’esame dell’educazione a credere, finalizzata alla maturazione di una carità operosa (capitolo 4), e nella considerazione di che cosa significhi il divenire adulto nella fede (capitolo 5). È tale chi sente il bisogno di offrire ad altri generosamente quanto ha gratuitamente ricevuto da Dio, nella comunione del suo popolo pellegrino nel tempo.
Il percorso del libro continua esaminando la fede professata: il rapporto decisivo per arrivare a credere e a comunicare la fede è quello con la parola di Dio (capitolo 6), che apre alla conoscenza della verità che illumina il cuore e la vita, quella verità che non è qualcosa, ma Qualcuno, venuto a noi come dono dall’alto, il Cristo di Dio (capitolo 7). La fede professata viene così a condensarsi nel Simbolo, l’antichissima formula, breve e grande, per dirsi e riconoscersi reciprocamente come discepoli del Figlio Gesù, verità che salva (capitolo 8). La professione della fede culmina nella celebrazione che attualizza nel tempo l’intera opera divina della salvezza: alla
fede celebrata sono dedicati rispettivamente i capitoli su «Eucaristia e trasmissione della fede» (capitolo 9) e quello sulla teologia del tempio, il luogo dove la fede è celebrata e trasmessa in modo peculiare (capitolo 10). Della fede vissuta si occupano successivamente i capitoli sui testimoni della fede, custodi della vita (capitolo 11), quelli sulla famiglia, ambito vitale della trasmissione della fede (capitolo 12), sulle donne, protagoniste dell’annuncio (capitolo 13), e sui giovani, aurora del mondo che verrà (capitolo 14).
In un contesto pluralista, qual è quello attuale, non ci si può interrogare sulla trasmissione della fede senza riflettere sulla fede in dialogo, considerando in special modo il rapporto fra il credente e chi non crede (capitolo 15). La considerazione della via della bellezza (capitolo 16) e la riflessione sulla musica come singolare strumento per trasmettere la fede (capitolo 17), rientrano in un’analoga riflessione sul carattere dialogico dell’annuncio e del dono della fede, attraverso le forme e i linguaggi più diversi, quali sono per esempio quelli del bello e dell’arte musicale. Infine, un richiamo alla fede in cammino, e cioè al carattere sempre itinerante dell’atto di credere, quale si esprime nella vita teologale (capitolo 18) e – al suo compimento ultimo – nella finale vittoria sulla morte per entrare nella luce piena della visione di Dio (capitolo 19), chiude il percorso del volume. A modo di approdo – certamente non esaustivo e perciò intitolato Sulla soglia – viene offerta una riflessione sul sorriso della fede (capitolo 20), intesa a sottolineare il valore umile e provvisorio di ogni conoscenza del Mistero nel tempo e l’ammiccare dell’Eterno, che sorridendo ci invita nella sua rivelazione al banchetto della vita e ci fa pregustare qualcosa della bellezza ultima della sua gloria, venendoci incontro nell’economia sacramentale della Chiesa. L’Appendice – intitolata «Fede e annuncio» – presenta brevemente due significativi testi di papa Francesco sui temi di cui si occupano queste pagine: l’enciclicaLumen fidei del 29 giugno 2013, e l’esortazione apostolica Evangelii gaudium del 24 novembre 2013.
Se la lettura di queste pagine aiuterà qualcuno a maturare ragioni e speranze nell’impegno della trasmissione della fede e a discernere opportuni cammini per essa, sarà valsa la pena averle proposte. Il grande esegeta e consolatore della fede, lo Spirito del Risorto, ci renda sempre più capaci di credere e di irradiare in maniera credibile la bellezza del dono ricevuto credendo…