Ci piace l’intenzione di parlare della scuola nella sua globalità. E proprio per questo: ripartiamo da un’alleanza concreta con studenti e docenti
Egregio mons. Galantino,
le scrivo dopo aver visto la sua breve intervista in preparazione all’incontro della scuola con il Papa. Avevo già cominciato a riflettere, come docente di religione, sulla giornata del 10 maggio a Roma. Ma le sue parole mi hanno stuzzicato, perché ho avuto l’impressione che la Chiesa italiana tenti, quasi per la prima volta, di prendersi a cuore la scuola nella sua globalità.
Sorpreso da questa impressione positiva, ho fatto una breve ricerca sul sito della CEI. E ho scoperto che dal 1980 ad oggi, cioè in 34 anni, i documenti ufficiali prodotti dalla CEI sono stati ben 1306. Di questi, solo due sono dedicati alla scuola nella sua globalità: il messaggio dell’allora presidente, card. Poletti, al mondo della scuola, del 11 giugno 1986 e la lettera "Per la scuola" della commissione CEI, del 23 maggio 1995. Da quella data ad oggi, la CEI ha prodotto 612 documenti ufficiali, nessuno dei quali si occupa della scuola nella sua globalità.
Credo che la mia impressione positiva sulla sua intervista sia, perciò, più che giustificata. Perché lei dice che l’incontro col Papa dovrebbe servire non a rinserrare le fila delle scuole cattoliche, ma "a riscoprire la gioia, ma anche la fatica, di educare gente criticamente in gamba, leale, aperta, capace di progettare cose nuove". Sono parole che fanno ben sperare. Anche perché non mettono subito in primo piano alcuni "must" ecclesiali sulla scuola, ormai purtroppo erosi dall’eccessivo uso: valori, libertà di educazione delle famiglie, scuole private. Ma, proprio perché veniamo dall’abitudine a queste parole, il timore che questo evento si riduca al solito "vedete quanti cattolici siamo, dateci i soldi che ci toccano!" (come scuole paritarie) lo dichiara pure lei. Non a caso, negli stessi anni dei due documenti citati, la CEI ha dedicato ben 13 documenti a scuole cattoliche e insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche. A volte anche i numeri sono parole.
Proprio per questo, oggi, se la Chiesa vuole davvero cambiare registro e prendersi a cuore la scuola italiana nella sua globalità, dovrebbe mostrare un po’ di coraggio in più.
Innanzitutto quello di uscire dalla logica della lobby. Al di là dei proclami e dei documenti ufficiali, il vissuto effettivo della Chiesa italiana verso la scuola, in questi ultimi 30 anni, è stato spesso improntato all’idea di conservare o riconquistare un territorio culturale che via via si stava perdendo. E se negli anni Settanta o Ottanta c’erano motivi di sensatezza in questo, non ci si è accorti che, nel frattempo, il mondo è cambiato e la società italiana è "esplosa", con una frammentazione culturale che impedisce tuttora di tornare a percorrere le strade di allora, per rifondare una società in cui l’"umano" si salvi. Perciò, quando lo facciamo, siamo spesso percepiti come la lobby "cattolica" della cultura. Il coraggio che oggi ci è chiesto è perciò quello di abbassare le difese e ridurre la distrazione verso la scuola statale.
La vicenda degli opuscoli dell’Unar sulla teoria del "gender" e la campagna "Lgbt" né è la riprova. Non perché quei volantini siano condivisibili. Ovvio che no. O sia accettabile che al ministero nessuno sapesse nulla di questo. Ovvio che no. Ma perché la nostra reazione "media" rischia di mostrare solo quanto siamo distratti, non immaginando che la scuola oggi vive, come la società, senza regole condivise e controlli reali, dove ognuno tende a fare quello che vuole. Oppure, mostra la difesa di una antropologia vera, ma irricevibile dal mondo di oggi, per come spesso ancora la formuliamo.
In secondo luogo, se vogliamo fare qualcosa per la scuola, incominciamo ad ascoltarla. Attraverso gli studenti e gli insegnanti che ci vivono dentro, non solo con "report" sociologici o nei convegni accademici, fatti da persone che spesso, da anni, non mettono piede a scuola. Lei stesso afferma che il Papa – incontrandola con il presidente, card. Bagnasco – ha insistito perché "ci sia sempre la percezione che la Chiesa sta parlando a persone in anima e corpo con la loro storia molto precisa". Come si fa, se prima non le ascoltiamo queste persone? Se, come Chiesa, non sappiamo che cosa succede realmente nelle classi della scuola italiana? Lo dico perché, a leggere molte parole, anche di alti esponenti ecclesiali, ho l’impressione chiara che si parli spesso di una scuola che non esiste nella realtà. La Chiesa perciò può fare un grande servizio alla scuola se apre spazi di ascolto e stimola luoghi di confronto, in cui essa possa guardarsi davvero dentro per provare a capire, dal basso, come riformarsi sul serio.
Allora, però, credo che non si possa partire già dall’idea che la scuola è una comunità educante. Non perché questo non sia vero, ma perché questo oggi, semmai, è un punto di arrivo, non di partenza. Una comunità educante esiste se sta dentro ad una società che si sente tale, perché la scuola è sempre anche lo specchio della società in cui vive. Perciò la prima "alleanza educativa" non può essere quella tra scuola e famiglie da una parte e tra scuola e società dall’altra. Questo aveva un senso fino agli anni Ottanta, in un’Italia in cui c’era ancora una sufficiente percezione della propria unità culturale di fondo. Oggi non è più così. Quell’alleanza oggi corre il rischio di restare solo un miraggio. La prima alleanza reale a cui possiamo tendere, con coraggio e realismo, è piuttosto quella con gli studenti da un lato e con i docenti dall’altro.
Con gli studenti. Tra le sette parole chiave che organizzano l’incontro con papa Francesco brilla per la sua assenza proprio questa: studenti. Dal ’97 ad oggi ho visto passare sopra la mia testa tre riforme della scuola che pretendevano essere abbastanza globali: Berlinguer, Moratti, Gelmini. Tutte e tre concordavano sulla necessità di giungere alla centralità dello studente, per rinnovare la scuola. Nessuna delle tre ci è riuscita e lo studente è stato reso sempre più oggetto della scuola e sempre meno soggetto della stessa, tentando di riempirlo di nozioni, di contenere i suoi comportamenti e di standardizzare le sue competenze. Ecco credo che la Chiesa possa aiutare la scuola a recuperare ciò che, come cristiani, abbiamo nel DNA. Cioè che l’educazione è prima di tutto una relazione reale tra persone e che si apprende solo se in questa relazione ci sentiamo riconosciuti, provocati, stanati e valorizzati.
Con i docenti. Non si può fare qualcosa di serio e reale per la scuola se non si promuove un nuovo ruolo del docente. Crediamo davvero che i ragazzi ci ascoltino per il nostro sapere? Quando ci ascoltano, lo fanno perché percepiscono la nostra umanità sincera e abbastanza intera che li attira e gli fa sentire che a loro piacerebbe diventare adulti così. E allora anche il nostro sapere prende senso per loro. Negli altri casi, chiudono il canale alla seconda parola. E le nostre parole, restano nostre. Non ci chiedono più di essere maestri. E non gli interessa nemmeno di Chi siamo testimoni. Ci chiedono invece di essere "risvegliatori" di un senso della vita davanti a loro. Ma come si fa a fare questo, se il ruolo del docente, anche nella Chiesa troppe volte è ancora pensato come semplice depositario di "conoscenze"? Su questo è molto più efficace (e annoia di meno) Wikipedia. Se vogliamo fare qualcosa per la scuola possiamo inve
stire per una "riformazione" dei docenti. Non tanto per far loro acquisire nuove conoscenze, ma lavorando sulla loro dimensione umana, comunicativa, relazionale, ludica. Per essere persone più intere, più armoniche e attraenti, che fanno trasparire il senso "bello" di quello che sono. Ricordando così alla scuola che si educa per quello che si è, non per quello che si fa o si dice.
Ma questo è possibile se, prima, la Chiesa ha il coraggio di rendersi conto che la scuola va messa in relazione non più solo con l’intelligenza dei ragazzi, ma con la loro intera persona. "La verità non s’incontra mai da sola. Insieme a lei ci sono la bontà e la bellezza. Una verità non del tutto buona e bella nasconde sempre una bellezza e una bontà non vere.(…) Come insegnare a percepire la bellezza, a fare autentiche esperienze estetiche, di quelle che lasciano il segno, rivelandoci il senso della nostra vita? Come insegnare ad accogliere senza paura la bontà che l’essere distribuisce a piene mani e a scoprire l’amore nella sua gratuità?". La bellezza educherà il mondo. Credo che anche lei sottoscriverebbe queste domande dell’allora card. Bergoglio. Forse sono il modo migliore per vivere questo 10 maggio.
Grazie per l’attenzione.
Gilberto Borghi