Una riflessione sulla UE a partire dall’appello dei vescovi europei a favore del progetto europeo
L’appello che i vescovi europei hanno lanciato in vista delle prossime elezioni è chiarissimo e incisivo: «desideriamo insistere che il progetto europeo non venga messo a rischio o abbandonato sotto le attuali costrizioni. […] Abbiamo troppo da perdere da un eventuale deragliamento del progetto europeo». Con altrettanta chiarezza identificano anche l’ostacolo su cui quel progetto rischia di incagliarsi: «I singoli cittadini, le comunità e persino gli Stati nazionali devono essere capaci di mettere da parte l’interesse particolare alla ricerca del bene comune». Con questa chiave è possibile ripercorrere i non pochi articoli che negli ultimi mesi Aggiornamenti Sociali ha pubblicato in vista delle elezioni europee del 25 maggio.
Nel processo politico europeo i primi portatori di interessi di parte sono gli Stati nazionali e i loro Governi, almeno in questa fase in cui si evidenzia la distanza che ci separa da una democrazia sovranazionale compiuta. Questa – lo ricordava il filosofo tedesco Jürgen Habermas (nel numero di gennaio) – «rimane l’obiettivo a lungo termine», ma rimandarne il raggiungimento presenta seri rischi. Infatti ai cittadini europei il futuro politico appare determinato «da Governi stranieri che rappresentano gli interessi di altre nazioni, piuttosto che da un Governo vincolato solo dal loro voto democratico». È questa la percezione diffusa nei Paesi del Sud nei confronti della Germania, con l’impressione di essere bloccati in un sistema rispetto al quale non hanno alcuna voce in capitolo: ad esempio, la crisi greca è stata lasciata incancrenire fino a diventare drammatica per ragioni legate alla tempistica delle elezioni locali tedesche. Oppure, per fare un ulteriore esempio, le divisioni tra i Paesi europei in merito alla crisi ucraina impediscono all’Europa in quanto tale di giocare il ruolo che le spetterebbe in una questione che la riguarda molto da vicino. Uscire da questa logica, sulla base di una solidarietà fondata su una prospettiva politica condivisa, condurrebbe a esiti ben diversi.
Altri interessi particolari sono quelli dei gestori della politica nazionale, in primis i partiti politici, che strumentalizzano l’agenda europea in funzione della costruzione del consenso all’interno del proprio Paese: «Quando la politica si riduce a questo, perde respiro e contatto con la realtà», commenta l’ex presidente del Parlamento europeo Pat Cox (nel numero di aprile). Infatti a tutti i livelli – e ancor più a livello europeo – raggiungere i risultati più importanti richiede la capacità di proiettare la propria azione nel futuro e di elaborare strategie di lungo periodo. Limitarsi a inseguire i sondaggi in vista delle continue scadenze elettorali lo rende impossibile: lo facevano notare al presidente Romano Prodi – lo racconta nell’intervista che pubblichiamo in questo numero – i responsabili politici cinesi. Ancora più grave è la strumentalizzazione dell’UE come paravento su cui scaricare la responsabilità delle scelte più difficili da presentare all’opinione pubblica: «È l’Europa che ce lo chiede/impone» è diventato un ritornello in tutte le capitali.
Ma ci sono anche interessi di parte che invece si veicolano attraverso un linguaggio sovranazionale o globale: sono quelli del “mercato”, del “capitale”, concretamente dei gruppi che su di esso basano la propria ricchezza e il proprio potere. Questo meccanismo spiega le ragioni profonde di posizioni che non sono contro l’Europa, ma contro un certo modello di Europa. Nel numero di aprile vi ha dato voce Teresa Forcades, monaca benedettina catalana impegnata nei movimenti popolari della sua regione: «Non sarà possibile alcun cambiamento se non si mette in discussione il capitalismo, secondo cui il massimo profitto è il miglior criterio per organizzare l’economia: dobbiamo smantellare l’attuale sistema e organizzarci perché si realizzino le condizioni necessarie per un esercizio degno dell’azione politica».
Infine ci sono i cittadini europei, spesso spinti a guardare al proprio particularedall’incertezza e dalla paura, magari sapientemente agitate di fronte ai loro occhi. Queste sono potenti fattori di chiusura, specie se combinate con l’ignoranza del fatto che la libertà, la pace, lo sviluppo dei nostri Paesi sono un grande dono dell’integrazione: ci siamo così abituati ad essi che è facile darli per scontati. Si radicano in questa dinamica le diffusissime posizioni euroscettiche, nei cui confronti è necessario passare dalla banalizzazione all’ascolto rispettoso: un processo da cui – afferma Romano Prodi – c’è molto da imparare.
Le critiche euroscettiche colgono infatti la realtà dei problemi, ma non la loro causa, che non è l’eccesso di integrazione europea, ma il fatto che questo processo non sia andato abbastanza avanti. C’è dunque bisogno di più Europa, ma di quella autentica, mentre la nostalgia per il passato, più o meno glorioso, degli Stati nazionali ci immetterebbe in una dinamica opposta al corso della storia mondiale.
Ma non tutti gli ostacoli che minacciano di far deragliare il processo europeo vengono dall’esterno; rileggendo le vicende dell’UE degli ultimi anni dobbiamo riconoscere che non siamo stati in grado di sviluppare adeguati meccanismi collettivi europei per l’esercizio di una solidarietà sovranazionale che possa essere assunta «di cuore» e non in maniera riluttante. Abbiamo progressivamente smarrito l’ispirazione originaria del progetto europeo: sostituire la solidarietà ai conflitti tra i popoli europei. La vera sfida è allora recuperare quello che non è idealismo utopico, ma una idealità capace di far superare la chiusura negli interessi particolari e di trovare le risorse per identificare opportunità di progresso là dove un eccesso di realismo ripiegato su se stesso scorge solo limiti invalicabili. Questa è sempre stata una caratteristica del processo di costruzione europea e non si può certo rimproverare a De Gasperi, Adenauer, Schuman e Monnet una mancanza di realismo. Ma, pensando all’epoca dei padri fondatori, è inevitabile constatare che dobbiamo recuperare la spinta ideale e sapere tradurre la componente carismatica e simbolica in istituzioni europee.
Ci troviamo ora di fronte alle elezioni per il rinnovo del Parlamento europeo. In quanto esercizio autenticamente democratico, esse rappresentano non un appuntamento formale che si ripresenta a scadenza ciclica, ma un ingrediente fondamentale della terapia per rinnovare l’Europa.
Ogni Parlamento infatti è l’istituzione deputata alla composizione degli interessi particolari attraverso la dinamica propriamente politica della mediazione in vista del bene comune, di ciò che
è bene per ciascuno e per tutti insieme. L’esistenza stessa di un Parlamento, inoltre, mostra la natura politica, e non tecnica o economica, della costruzione europea. Mostra soprattutto che le dinamiche europee non possono ridursi a quella intergovernativa, in cui da un lato i deboli si trovano alla mercé dei più forti, dall’altro le questioni comuni corrono costantemente il rischio di essere percepite e trattate non nella chiave del bene comune europeo, ma in risposta agli interessi e alle dinamiche del consenso dei diversi Paesi, a cui i Governi nazionali sono vincolati. Questo ruolo del Parlamento, del tutto chiaro in linea teorica, può però rimanere sulla carta: quindi, in primo luogo al Parlamento europeo serve forza per potersi davvero appropriare dei suoi compiti ed esercitare il suo potere, e questa forza gli può derivare solo dall’essere effettivamente rappresentativo. La partecipazione al voto e la consapevolezza nell’indirizzarlo sono di importanza cruciale a questo riguardo.
In secondo luogo, l’assemblea che uscirà dalle urne sarà il prodotto dell’azione congiunta di tutti i cittadini europei, evidenziandone così l’unità istituzionale politica. L’esistenza di un organo rappresentativo unitario rende visibile, almeno sul piano istituzionale, l’unità dei rappresentati, quel “demos” europeo sulla cui latitanza spesso ci si interroga. Certo se il momento elettorale è l’unico in cui questo soggetto si rende percepibile non potrà costruirsi quella esperienza condivisa di essere popolo che permetterebbe ai cittadini europei di esercitare davvero la propria sovranità e soprattutto di sperimentare di essere legati al di là delle frontiere e degli interessi nazionali. In questo le barriere linguistiche rappresentano un ostacolo enorme, in quanto impediscono il sorgere di un dibattito pubblico fluido a livello continentale. Il momento elettorale, democraticamente vissuto, rappresenta comunque una fase almeno embrionale di questo “demos”, e come tale può rivelarsi preziosa. L’unità degli europei, ancora più di quella dell’Europa, sarà il frutto di un processo lungo, ma in cui l’esercizio della democrazia gioca un ruolo chiave.
A riguardo, già De Gasperi, parlando al Senato il 15 novembre 1950, ebbe a dire: «Voi dite: nell’Europa non c’è l’unità: lo sappiamo. Neanche in Italia c’è l’unità, nemmeno in qualsiasi altra nazione troverete l’unità psicologica, l’unità della convinzione religiosa. Ma quale è lo sforzo che oggi si chiama democrazia? Non rappresenta solamente la forma in cui la rappresentanza politica deve manifestarsi e inverarsi, ma anche il tentativo di creare una legge fondamentale di convivenza civile, in cui tutti quelli che credono possono lavorare assieme per la ricostruzione del mondo». Le elezioni del 25 maggio sono una tappa di questo percorso e quindi una opportunità che non dobbiamo sprecare per curare i mali dell’Europa. Per questo, con i vescovi europei, ripetiamo che «È essenziale che i cittadini UE partecipino al processo democratico esprimendo il loro voto il giorno delle elezioni». Altrettanto importante è che questo voto sia dato a forze politiche e candidati che siano stati capaci non solo di inseguire la pancia di interessi e paure ma anche e soprattutto di presentare un programma credibile per un’Europa coesa di oggi e di domani.