Il Rapporto 2013 della Comunità Papa Giovanni XXIII dipinge un quadro preoccupante sulle tante pressioni che inducono le donne incinte ad abortire
Una società abortista la si riconosce in molti aspetti: dai fondi che mette a disposizione delle donne che decidono di interrompere la gravidanza rispetto a quelli destinati a chi stabilisce di continuarla, ad esempio, oppure dalle strutture messe in piedi per accompagnare queste ultime nel loro percorso verso la vita nascente. Ma lo si riconosce anche dalle tante pressioni, familiari e non, che una donna avviatasi ad una “maternità difficile” deve subire. Oggi queste tante voci sono raccolte in statistiche precise, pubblicate nel Rapporto 2013 della Comunità Papa Giovanni XXIII, che da molti anni ormai supporta con mezzi psicologici e materiali le donne incinte in difficoltà che trovano la forza, e le corrette indicazioni, per rivolgersi ad essa. Noi di Aleteia abbiamo incontrato diversi dirigenti della Comunità. Giovanni Ramonda, suo responsabile generale, ci ha offerto alcune sue riflessioni sui dati inclusi nel rapporto.
Ramonda: Dai contatti che abbiamo costruito con molte donne che pensano all’aborto, noi abbiamo riscontrato che in un caso su cinque c’è un’induzione all’aborto. D’altra parte riscontriamo che le donne con cui riusciamo ad entrare in dialogo, ad aiutare e a sostenere, due volte su cinque non interrompono la gravidanza. Questi sono dati importanti che se li rapportiamo ad un livello nazionale, che inciderebbero significativamente sul fenomeno della denatalità: come sappiamo almeno 120.000 bambini non nascono ogni anno in Italia. Se noi estendessimo il supporto, nostro e di altri a livello nazionale, decine di migliaia di bambini potrebbero nascere. Noi chiediamo per questo che gli stessi soldi che lo stato spende per l’interruzione naturale della gravidanza vengano stanziati altrettanti soldi per il diritto alla nascita dei bambini. Così cambierebbe la tendenza del nostro Paese che sta invecchiando sempre di più: siamo a un tasso di 1,2 di natalità, la metà di altre nazioni europee.
Enrico Masini, responsabile servizio nazionale, ha analizzato alcuni aspetti del Rapporto.
Masini: Questo rapporto, che si basa su schede che i nostri operatori compilano nel momento in cui arriva una richiesta di aiuto per una situazione di maternità difficile, uno dei tanti settori in cui opera la comunità Papa Giovanni XXIII, stima che ci siano giunte nel 2013 circa 540 situazioni di richieste di aiuto. Emergono alcune criticità: quella più preoccupante è legata all’istigazione all’aborto, un fenomeno in crescita esponenziale negli ultimi anni. È preoccupante che ci sia un numero crescente di gestanti che nel chiederci aiuto manifestano un’intenzione ad abortire su pressioni esterne: da parte di genitori, del compagno o del marito, dei datori di lavoro, e purtroppo anche da medici e da servizi sociali. Questo è l’aspetto più grave che noi vogliamo fare emergere, perché contraddice quanti ci vogliono far credere che si tratti di una libera scelta della donna. Ma non c’è libertà, se non c’è possibilità di scelta.
Ci racconta di qualche episodio?
Masini: C’è una donna che proprio ieri sera mi ha mandato un’email, dopo diversi giorni che ci sentivamo, in cui mi diceva “i genitori non mi sostengono, domattina vado ad abortire”. In questa email mi diceva anche: “io non sono convinta di quello che sto facendo, ma è l’unica strada che ho davanti”. Io le ho risposto rinnovando la nostra disponibilità a sostenerla, e oggi in un sms mi ha scritto: “abbiamo deciso di fidarci di voi”. Anche inaspettatamente lei e il marito, disoccupati entrambi, hanno scelto di proseguire la gravidanza nonostante tutto attorno fosse contro la vita di questo bambino. Ma sappiamo anche di situazioni in cui si profila l’inganno. Una settimana fa ho incontrato una donna alla quale il partner aveva fatto bere una sostanza abortiva senza dirle di cosa si trattava. Questo fenomeno è preoccupante, e dovrebbe ricevere un’attenzione anche bipartisan, cioè, non soltanto di chi sostiene la tutela del nascituro. Tra gli aspetti positivi, invece, c’è un raddoppio in un solo anno del numero dei casi che ci hanno inviato i servizi sociali. Questa è una novità molto positiva, che finalmente da parte dei servizi sociali di molte città c’è un’attenzione è una fiducia nei nostri confronti, in un proporre anche questa possibilità alle gestanti che si presentano a loro chiedendo di abortire, ma che in realtà chiedono solo aiuto.
Cosa pensate delle istituzioni pubbliche?
Masini: Molte volte siamo critici, perché constatiamo poco sostegno alla maternità difficile, non si cercano alternative all’unica soluzione che viene proposta: quella gratuita, immediata, dell’aborto. E spesso si dice alle donne: “se lo vuoi tenere sono fatti tuoi”: mentre per l’aborto si offre un appuntamento subito, anche in giornata, se una vuole essere seguita gratuitamente dal consultorio per continuare la gravidanza il primo incontro viene rimandato anche di mesi. Abbiamo anche casi di donne a cui viene chiesto di pagare per partorire. Questo è un aspetto molto grave, anche se numericamente non sono molte: si tratta soprattutto di bulgare e romene che per varie ragioni hanno perso il diritto all’assistenza sanitaria, e a cui quindi viene chiesto di pagare tutte le spese legate al parto. Questa è un’ingiustizia che va rimossa dalle istituzioni, pochissimi ne sono consapevoli. I due terzi delle donne che incontriamo come Comunità poi scelgono di portare avanti la gravidanza: noi chiediamo alle istituzioni di inviarcele, di considerare il nostro ruolo pubblico non marginale di fronte a queste situazioni.
Infine, abbiamo ascoltato Andrea Mazzi, membro della Comunità Giovanni XXIII, che ha vissuto sul campo molte situazioni di pressione sulle gestanti per abortire.
Mazzi: In base alla raccolta di dati abbiamo fatto nel 2013 abbiamo riscontrato che nel 21% dei casi per donne che erano incerte se abortire in meno, c’è stata della pressione. Probabilmente è anche un dato sottostimato, perché in molti casi le pressioni non sono dichiarate. Le pressioni sono dell’ambiente familiare, del marito che le dice “se non abortisci ti lascio” o “ti mando via”; ci sono situazioni di pressioni psicologiche anche molto sottili e di violenze fisiche su donne che volevano abortire. Poi nel caso di minori o di ragazze con problemi fisici abbiamo pressioni forti da parte dell’ambiente familiare, soprattutto delle madri. Ci sono pressioni da parte del mondo del lavoro, che spesso sono indirette: di fronte ad una precarizzazione del mondo del lavoro, donne con contratti a tempo indeterminato sanno bene che se restano incinte non avranno il rinnovo. Poi ci sono pressioni da parte dell’ambiente medico, soprattutto quando ci sono situazioni di diagnosi prenatale in cui sono evidenziati problemi di salute del bambino: si assiste a consigli o a inviti espliciti, a colpevolizzazioni della donna, accusata di essere egoista o di non saper valutare bene le cose. Infine ci sono anche pressioni da parte degli assistenti sociali che dicono: “noi diamo un sostegno di reinserimento nel mondo lavorativo, se tu sei incinta non puoi lavorare, e non ti possiamo dare alcun aiuto. Oggi viviamo in una società abortista in cui la strada è per abortire è facile e gratuita, e poi c’è un burrone. Mentre chi sceglie di continuare la gravidanza c’è uno sterrato di montagna che produce dubbi e scoraggia. Le spinte sono tantissime, tutte in un’unica direzione.