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Quelle 19 ore di vita che hanno stravolto i medici

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Aleteia - pubblicato il 17/04/14
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La storia commovente di una mamma e la nascita del “Percorso Giacomo” scaturito dallo stupore dei medici che lo hanno visto vivere in quelle poche ore
«Mi avevano detto che sarebbe nato, ma solo per morire qualche istante dopo. Una vita inutile, senza senso». A raccontarlo è Natascia sulle pagine di Tracce.it il 16 aprile.

Lei, mamma di Giacomo, al quale, un anno fa, è stata diagnosticata una malattia incompatibile con la vita: anencefalia. «Interrompere la gravidanza mi veniva prospettata come unica via ragionevole. A cosa sarebbero valsi quei nove mesi di attesa che sarebbero poi terminati con una morte certa?».

Giacomo nasce all’ospedale Sant’Orsola di Bologna e invece di morire subito, piange, si muove, è pieno di energie. Vive per diciannove ore. Intense e potenti. 

Chiara Locatelli è la neonatologa che lo ha curato in quelle ore, lo ha tenuto al caldo, si è assicurata che non soffrisse, gli ha dato da mangiare e soprattutto – con l’aiuto dei suoi responsabili e colleghi, del ginecologo Patrizio Calderoni e di Antonella Graziano, la caposala – ha fatto in modo che Giacomo potesse stare per tutto il tempo in una stanza con la mamma, il papà e i fratellini. Racconta Natascia: «Noi lo abbiamo scoperto solo più tardi che il fatto di avere un posto tutto per noi, dopo il parto, e di avere una stanza per il ricovero, in cui sono potuta stare con Giacomo, è stato fuori dall’ordinario». 

"Fuori dall’ordinario" è tutto quello che è successo quel primo di ottobre: ostetriche, neonatologhe, medici ed infermieri hanno lavorato insieme perché Giacomo potesse vivere senza soffrire accanto alla sua famiglia. Alcuni sono andati a ringraziare Natascia e il marito per l’esperienza vissuta. Tanto che, il giorno dopo, Antonella Graziano, la caposala, va dalla Locatelli e le dice di voler pensare ad un percorso, un protocollo da seguire e proporre agli altri medici se si fosse verificato un altro caso come quello. 

Così nasce il “Percorso Giacomo”. Dallo stupore dei medici che lo hanno visto vivere in quelle ore. La Locatelli si attiva subito per organizzare un incontro per il suo ospedale. Ma presto la prospettiva si allarga. Una mamma originaria di Napoli, nella stessa situazione di Natascia, la chiama per chiederle informazioni su come è stato accompagnare Giacomo. Pian piano viene a galla che in tanti posti in Italia c’è questo bisogno i imparare a curare anche questi bambini. Così il convegno diventa nazionale. C’è il patrocinio della Società Italiana di Neonatologia e quello del Collegio delle Ostetriche; tra gli ospiti, interverranno Elvira Parravicini, neonatologa alla clinica pediatrica della Columbia University di New York, e altri medici che hanno esperienza in questo campo.

Il 12 aprile, da tutta Italia, arrivano a Bologna duecento tra medici, infermieri, ostetriche, per partecipare al convegno “Vivere un lampo di vita. Il perinatal hospice”.«Un argomento di cui si parla poco in medicina, ma che ne costituisce il cuore», come ha detto nella sua introduzione il professor Giacomo Faldella, primario di Neonatologia del Sant’Orsola: il comfort care è un metodo di terapia medica e di assistenza infermieristica per i bambini che nascono già terminali, un percorso che ha al centro la cura del neonato per tutto il tempo della sua vita e la cura della sua famiglia, perché abbia le condizioni per stare con il proprio figlio e amarlo. Al convegno si sono susseguite lezioni magistrali sulle cure palliative già esistenti in Italia, l’esperienza del team di comfort care della Columbia University, con la Parravicini e l’infermiera Fran McCarthy, gli interventi di Natascia e Mirco, i genitori del piccolo Giacomo.

«È stata una giornata in cui si è parlato in modo scientifico e rigoroso», spiega la Locatelli: 
«Non è stato un convegno "pro life", ma la possibilità per tutti di capire che si può curare anche chi non può guarire». La vocazione del medico sta tutta lì. Accompagnare, accudire, dedicarsi. Come ha fatto lei con Giacomo. Al convegno ha semplicemente raccontato questo, cos’ha vissuto in quelle 19 ore, dal primo minuto all’ultimo: «Se sei un medico, non può non interrogarti la presenza di Giacomo. Capisci che devi adoperarti per curarlo. Tutti i presenti hanno percepito questo come vero, non solo io. Non si tratta di fare una battaglia di valori, ma di guardare all’esperienza. Cosa corrisponde di più?». 

Un medico non può mai dire «non c’è più niente da fare». Lo ha ricordato Elvira Parravicini, raccontando della sua esperienza di comfort care: il suo team segue la famiglia dalla diagnosi alla nascita. I genitori vengono accompagnati in tutto, anche nelle faccende più quotidiane. «Noi siamo di fronte, ogni volta che nasce un bambino malformato, allo sviluppo nei genitori di un dolore straordinario e sono genitori che esprimono un bisogno», ha detto Nicola Rizzo, il primario di Ostetricia e Medicina dell’età prenatale dell’ospedale bolognese: «Noi oggi abbiamo visto cosa si fa per cercare di soddisfare questo bisogno che nasce dal loro dolore». Ha spiegato che innanzitutto c’è bisogno di tre cose: «Il rispetto del loro dolore, perché quello è il dolore di Dio», poi «la solidarietà sociale», che può sostenerli nelle scelte di vita piuttosto che di morte, e «la conoscenza, e questa noi gliela possiamo dare, anzi noi gliela dobbiamo dare».

C’è bisogno di guardare la realtà tutta intera, senza dimenticarne dei pezzi. Senza dare per scontato nulla. Fino ad arrivare al senso della vita. È questa la cosa che sta più a cuore a Natascia. «Più che il “protocollo”, al convegno desideravo che qualcuno si interrogasse sul senso della vita di mio figlio. Io per prima mi interrogo su questo. E sul senso della mia, di vita. Noi siamo solo i pennelli nella mano di Uno che pian piano ci mostra un disegno bellissimo. La vita di Giacomo in quelle poche ore è stata piena di bene. Di amore. 

Cosa desidera un uomo più che essere amato ed amare? Quel giorno è stato tutto così, pieno di tenerezza. Chi può dire oggi che la vita di mio figlio è stata inutile?». Faldella ha chiuso i lavori e salutato così: «Grazie, Giacomo è stato una luce nel caos».

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