I gesti e le priorità di Papa Francesco sono una sferzata per tutti. Ma nella Chiesa, lo seguono tutti?
Sono convinto che papa Francesco, senza negare la continuità con il passato e con i suoi predecessori, sta operando per rinnovare profondamente la vita della Chiesa.
Osservo di passaggio che entrambe le tesi contenute in questa affermazione hanno oggi un buon numero di oppositori. C’è chi ritiene Francesco un “picconatore” irresponsabile che, accecato dall’ebbrezza della popolarità, sta mandando l’istituzione ecclesiastica allo sbaraglio. E c’è chi, al contrario, si affanna a sostenere che nei comportamenti e nel messaggio del nuovo pontefice non c’è nulla di diverso da quello che avevano fatto e detto i papi precedenti. Le pretese innovazioni sarebbero solo il frutto di interessate strumentalizzazioni da parte di chi vorrebbe contrapporre il nuovo papa alla Chiesa, così come è sempre stata e sempre sarà.
Personalmente ritengo entrambe queste posizioni, alla luce dei fatti, insostenibili.
La prima, perché la rivoluzione a cui stiamo assistendo non si svolge a livello dei princìpi dogmatici ed etici, che Francesco non si stanca di ribadire, ma di quella loro interpretazione pratica, spesso distorta, che ne ha oscurato in molti casi il vero significato. Se da questo sforzo qualcosa emerge, non è una minore, ma una maggiore fedeltà alla tradizione cristiana e a quella specificamente cattolica.
La seconda posizione – peraltro smentita dalla precedente – è altrettanto infondata, perché è evidente che, pur non innovando i princìpi, il papa li sta riproponendo in forme molto diverse da quelle in uso nel passato. Che poi ci sia chi strumentalizza questo per i propri scopi, non toglie nulla alla carica di novità che questo pontificato sta rappresentando.
Un esempio che evidenzia quanto vado dicendo può essere quello che riguarda il tema della povertà.
L’importanza di “ripartire dagli ultimi” non è certo un’invenzione del papa argentino. Da tempo, ormai, il magistero insisteva su questo punto. Ma, fino a questo momento, il problema dei poveri non aveva occupato, a dispetto delle enunciazioni teoriche, un posto centrale. Si era insistito di più sul problema della morale sessuale, sui temi della bioetica, sulla libertà di insegnamento. Tutte cose importantissime! Ma l’averle proposte sotto il titolo di “valori non negoziabili” ha avuto come inevitabile contraccolpo quello di far ritenere “negoziabili”, o almeno non essenziali, tutti gli altri valori, primo fra tutto quello della giustizia nei confronti dei poveri.
Si potrà dire che quelli erano i valori più immediatamente minacciati nel nostro tempo. Basta guardare la realtà, però, per rendersi conto che anche le disuguaglianze sociali e le ingiustizie dilagano nel mondo contemporaneo. In ogni caso, Francesco ha spiegato con grande chiarezza di non volere minimamente misconoscere l’importanza di quei problemi, ma solo di volerli contestualizzare in una più ampia visione, che includa e sottolinei anche la “non-negoziabilità” degli altri. E, in particolare per quanto riguarda la povertà, ha cominciato a valorizzarla con i propri comportamenti, a partire dal suo personale stile di vita, prima ancora che con le parole. Poi ha decisamente e apertamente criticato il capitalismo e il consumismo, ricordando che il Vangelo è incompatibile con il culto del profitto e con l’egoismo sociale.
Nulla che non sia nella tradizione cristiana e nell’insegnamento dei suoi predecessori, da Giovanni XXIII a Benedetto XVI. Solo che ora il messaggio viene esplicitato e portato in primo piano. Quanto questo sia poco usuale, nella Chiesa, lo dimostra il fatto che il papa ha dovuto difendersi dall’accusa di essere “comunista”! In realtà, è proprio la sua estrema fedeltà a una tradizione che, fin dai padri della Chiesa, ha insistito moltissimo sulla relatività del diritto di proprietà – che deve essere al servizio dell’uso comune (i ladri sono coloro che detengono il superfluo, spiegano S. Ambrogio e S. Giovanni Crisostomo) – a rendere Francesco effettivamente innovatore.
Gli esempi si potrebbero moltiplicare. Fra i princìpi e la vita quotidiana della comunità cristiana c’è sempre una “cultura” che traduce i primi nella seconda. Quella dominante fino a poco tempo fa era diventata inadeguata. Francesco sta lavorando su questo piano intermedio, cercando di cambiarla.
Ci riuscirà? Non lo so, non può ancora saperlo nessuno. Le resistenze sono fortissime, anche da parte di chi in linea teorica approva il suo sforzo. Si guardi, per esempio, all’impegno con cui il nuovo papa ha cercato di rilanciare il tema della collegialità, presentandosi fin dall’inizio come semplice “vescovo di Roma”, pur senza minimamente mettere in discussione il suo primato. Nulla di più conforme alla tradizione e al Concilio Vaticano II. Ma nulla di più lontano da una prassi che ha spesso visto i vescovi locali considerarsi ed essere considerati dei funzionari di una struttura piramidale. Sta di fatto che anche la Conferenza Episcopale Italiana ha preferito declinare l’esplicito invito del pontefice a scegliere autonomamente il proprio presidente, invece di riceverlo per nomina dall’alto.
E non è questo il solo segnale che lascia perplessi. In questo momento nella Chiesa sembra che tutte le voci si siano zittite. Il solo a parlare, il solo a occupare tutta la scena, è Francesco.
Così, come era già accaduto in passato, e contro le intenzioni dell’interessato, il centralismo è riaffermato, paradossalmente, anche con questo pontefice. Agli occhi di tutti, oggi come ai tempi di Giovanni Paolo II, la Chiesa sembra identificarsi col papa!
Spero sia solo una fase transitoria. Ma a renderla tale può essere solo una più decisa assunzione di responsabilità da parte di tutti i membri della comunità cristiana, ognuno secondo il proprio ruolo.
Il solo modo di aiutare papa Francesco nella sua opera è di non lasciarlo solo. Non ha bisogno di fans, ma di compagni di strada. Smettiamola di limitarci ad ammirarlo, imitiamolo.
Questo è, esplicitamente, il suo desiderio. Questo è, soprattutto, ciò che può veramente servire a rinnovare la nostra Chiesa.