Riflessioni sulla “tregua di Natale” durante la I Guerra MondialeNella foto: Croce collocata a Comines-Warneton (Belgio) nel 1999 in ricordo della tregua di Natale del 1914 che fermò momentaneamente la I Guerra Mondiale.
di Marcelo López Cambronero
Da qualche anno va avanti l’inganno per cui la politica è la gestione di questioni che riguardano un’istituzione che è stata dotata di determinate competenze, e questa definizione è un grave errore. La “gestione” non può mai essere l’obiettivo dell’azione politica perché è semplicemente un mezzo. Si gestisce qualcosa in vista di un fine, e chi afferma che come politico si dedica alla gestione lo dice perché o ritiene che i fini ai quali si dirige la politica siano fissati in anticipo, come se si trattasse di una scienza esatta, o vuole nascondere la discussione politica, base di una vera democrazia, o infine non conosce né il senso né la direzione di ciò che pretende di fare. La politica non è una questione solo di mezzi, né di rimedi, ma tratta prioritariamente i fini, che, come dice il buon Aristotele, sono i beni. In questo caso i beni comuni.
Oggi voglio soffermarmi proprio su questo aggettivo – “comuni” – che si dà ai beni di cui si occupa la politica. Cos’è il comune? Chi è il soggetto del “comune”? O, detto in modo diretto, in cosa consiste il fatto di essere una comunità?
Mi interessa comprendere l’atto politico per eccellenza, quello che costituisce un popolo, ovvero una comunità che condivide e postula beni che ha come propri. In modo particolare, mi interessa capire quale sia l’atto politico che costituisce il popolo cristiano, visto che al di sopra di qualsiasi altra appartenenza o identità è il popolo del quale sento di far parte.
A questo proposito, c’è un fatto storico che mi sembra uno dei più decisivi per comprendere cosa significhi appartenere al popolo di Dio, soprattutto nella congiuntura attuale. Si tratta, a mio giudizio, di uno degli eventi più rilevanti nella storia della filosofia politica e che tuttavia ha richiamato poco l’attenzione di quanti si occupano – o ci occupiamo -, con maggiore o minor fortuna, di questi argomenti.
È avvenuto nel primo anno della Grande Guerra, quando le trincee tagliavano la pelle dell’Europa riempiendola di ferite che suppuravano sangue e fuoco. Il giorno di Natale del 1914, vicino Yvres (Belgio), si verificò quello che Arthur Conan Doyle definì “un episodio umano in mezzo alle atrocità che hanno macchiato la memoria della guerra”, o, come scrisse ai genitori uno dei protagonisti, il sergente Charles Lightfoot, in una lettera del 28 dicembre, “una visione che andava al di là di ogni fantasia”.
Il 24 dicembre 1914 sorprese i giovani combattenti in un compito singolare, visto che stavano decorando le loro lugubri trincee con addobbi natalizi, come chi decora con un murale colorato l’interno della propria tomba. In quel momento, gli uni e gli altri accompagnavano il lavoro cantando canzoni natalizie che, intonate in una lingua o in un’altra, non erano estranee per coloro che strisciavano nei fossati vicini. Tutti conoscevano le canzoni, il loro significato, quello a cui richiamavano. Alcuni, i più audaci, si azzardarono allora ad accompagnare i canti dei nemici, per poi uscire dai propri fossi e stringere loro la mano. Secondo quando riportano le cronache dell’epoca, quel giorno la guerra si fermò, i nemici divennero ospitali, si scambiarono doni, recitarono insieme il salmo 23 (“Il Signore è il mio pastore, non manco di nulla…”) e seppellirono, piansero ed elevarono preghiere per i morti che quel giorno avevano scoperto che erano per tutti come propri, qualsiasi uniforme portassero.
Nel Natale 1914, i “nemici” più grandi si resero conto che li univano una stessa musica, uno stesso desiderio, uno stesso cuore, una stessa fede.
La cosiddetta “tregua di Natale” si estese arrivando a molti chilometri di distanza, e ovunque – e contrariamente agli ordini dei superiori – moltissime unità si rifiutarono di continuare la sordida battaglia nella quale qualcuno, i loro Stati, li aveva trascinati. Nessuno obbedì all’ordine di sparare, né quel giorno né quello successivo. In vari luoghi del fronte non si riprese il tetro lavoro di uccidere i propri simili fino al febbraio 1915.
Di fronte a qualcosa del genere nasce sempre una domanda, forse simile a questa: com’è potuto accadere un fatto del genere? Non era stata sufficiente la propaganda con cui ogni centro di comando riempiva le trincee e che si era iniziata ad inculcare mesi prima, come indica Chesterton, dal potente organo ideologico della scuola pubblica?
Forse vale la pena in primo luogo ricordare ai non cristiani, ma purtroppo anche a quelli che lo sono, che il cristianesimo non consiste nel compimento di una lista di mandati morali, né nell’essere di destra o di sinistra, né nel condividere qualsiasi tipo di discorso ideologico, e neppure nell’essere d’accordo con una nozione benevola della vita e dell’uomo o nell’agire coerentemente a questa nozione. La fede è una grazia che si riversa in modo efficace e gratuito sulla nostra vita, è un’altra vita che si inserisce in noi rendendoci maggiormente noi stessi. Mediante il Battesimo, e mediante l’Eucaristia, facciamo parte del Corpo di Cristo, non solo come Nazione, ma come Nazione di Nazioni: il Popolo di Dio, formato da qualcosa di meno fragile della nostra intenzione di unità, della nostra volontà di raggiungerla, che è per la comune appartenenza a Lui corpo del suo corpo e sangue del suo sangue, e quindi corpo del corpo del fratello e sangue del sangue del fratello. L’Eucaristia genera così una comunità che trascende barriere, frontiere, limiti culturali e linguistici, costituendosi nell’atto politico per eccellenza. Da questa nasce la vita di un popolo che si estende fino ai confini della terra.
L’Eucaristia produce un’unione reale tra i diversi, tra gli hutu e i tutsi, tra i palestinesi e gli israeliani, tra i poveri e i ricchi, formando tutti una comunità costruita dallo stesso Cristo presente tra noi e in ciascuno di noi. Tedeschi, austriaci, ungheresi, italiani, inglesi e francesi che si guardarono negli occhi in quella notte del 1914 hanno potuto dimenticare l’odio astratto fomentato da quegli Stati che reclamavano loro, come a Faust, la proprietà della loro anima, per rendersi conto che uccidendosi stavano uccidendo di nuovo, flagellando e crocifiggendo, il loro unico Signore.
Perché essere di Cristo non annulla l’identità che nasce dall’affetto per la terra, le tradizioni, la lingua, la propria cultura, ma la apre all’universale, al cattolico, all’incontro con l’altro, a non concepire l’appartenenza dal solito piano negativo, che delimita ciò che siamo per contrasto con quelli “che non siamo”, proprio il contrario dell’Eucaristia, che ci fa essere gli uni degli altri.
Quell’evento insolito, quel raggio di verità e speranza che percorse una landa di odio e morte, ci deve far pensare alla vera natura della vita politica nella quale siamo immersi al giorno d’oggi, in cui gli Stati contemporanei esigono che diamo loro tutto il nostro essere in cambia del riconoscimento di ciò che era nostro fin dall’inizio: un pugno di diritti che non esiteranno a calpestare, o a far sì che li calpestiamo gli uni agli altri se è nel loro interesse. Nel frattempo, continuiamo a pensare che dipendiamo dalle loro concessioni, briciole con cui ci vogliono togliere la libertà dei figli di Dio.
O siamo liberi da tutto e dediti a Dio, o rifiutiamo Dio e corriamo come stupidi dietro qualsiasi totem mettano davanti ai nostri occhi. A quel vitello
d’oro consegneremo il nostro sangue e immoleremo la nostra discendenza a patto che ci prometta di trasformare le pietre in pane e così, per una via di serena e inavvertita schiavitù, arrivi a fornirci l’unico placebo che è capace di fabbricare: quella triste e meccanica “felicità” della solitudine senza abbraccio né braciere.
[Traduzione a cura di Roberta Sciamplicotti]