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Giovanni XXIII e il “mistero Roncalli”

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Roberta Sciamplicotti - Aleteia - pubblicato il 16/04/14
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Nuova luce sulla spiritualità del “papa buono” attraverso il rapporto con il suo cancelliere
“Roncalli padre e pastore” (Marcianum Press), di Sandro G. Franchini, è il testo che aiuta ad approfondire la personalità del pontefice che verrà canonizzato insieme a Giovanni Paolo II.

Come scrive Marco Roncalli nella presentazione del testo in uscita il prossimo 23 aprile, il primo incontro tra il futuro papa e don Sergio avvenne nel marzo 1953, alla vigilia dell’ingresso di Angelo Giuseppe Roncalli in laguna come patriarca di Venezia. L’ultimo si svolse invece cinque anni più tardi, nel novembre 1958, in Vaticano: con Roncalli da soli nove giorni salito sulla cattedra di Pietro dopo aver scelto il nome di Giovanni XXIII e don Sambin che, fattosi firmare un documento necessario agli uffici della curia veneziana, chiese al neopontefice una parola di congedo da apporre su una fotografia. “Subito ottenuta ed espressa nella formula: ‘peramanter in Domino’, che potremmo tradurre ‘affettuosamente nel Signore’”.

Fra queste due date, si è sviluppata “una collaborazione nel segno della fedeltà e dell’affetto, durata un quinquennio tra le cupole e i pinnacoli della ‘regina dell’adriatico’”.

Per Roncalli, infatti, don Sambin non è stato solo “un sacerdote incontrato ogni settimana in ragione di una funzione peculiare in ogni curia diocesana, ma, soprattutto, un collaboratore apprezzato, con compiti sovente di trait-d’union diretto tra la curia e il patriarca”.

Nel rapporto tra il vescovo ultrasettantenne e il giovane sacerdote si può scoprire “il senso di un comune servizio alla Chiesa e quanto è possibile attribuirvi oltre l’apparente routine, le udienze ripetute, il lavoro di firme, le questioni giuridiche, amministrative, i problemi talora meno spirituali, ma pur necessari alla gestione della diocesi. Se poi non mancano espressioni di confidenza e stima, con Sambin insieme al patriarca anche in alcuni viaggi o ricordato sul diario per diversi incarichi delicati, ecco che forse, a cementare la sintonia fra i due, fu anche la capacità di ascolto di don Sergio, partecipe di tanti ricordi roncalliani sul ‘suo’ vescovo, Giacomo Maria Radini Tedeschi e la comune sensibilità verso la storia, i documenti, l’ordine degli archivi, specchio di tante vicende umane occasione tanto di ‘anxietates’, quanto di ‘consolationes’. Il vescovo e il cancelliere, dunque, ma anche due appassionati di storia e cultura”.

Il rapporto tra Roncalli e don Sergio, scrive Franchini nel testo, aiuta anche a gettare luce sulla “complessa, affascinante, per molti versi sorprendente personalità di Giovanni XXIII”, che a cinquant’anni dalla morte “risveglia riflessioni e pone ancora interrogativi che si rifanno all’essenza stessa dell’esperienza cristiana”.

“Giovanni XXIII, nella sua vicenda personale, nel suo vivere il Vangelo come cristiano, come prete, come pontefice, seppe realizzare un modello di vita al quale non è possibile tentare di avvicinarsi se non cercando di comporre e ordinare nella prospettiva di un’alta tensione religiosa elementi biografici apparentemente discordanti, che hanno condotto a esiti imprevisti, e la cui stringente, intima coerenza interna non appare riconducibile a paradigmi precedentemente noti e consueti”.

Non a caso, all’indomani della morte del “papa buono” il gesuita francese Robert Rouquette ha parlato di “mystère Roncalli”, formula che “bene esprimeva la difficoltà di dare risposte adeguate alla domanda che ci si trova davanti quando cerchiamo di avvicinarci a Giovanni XXIII: come accostare nello stesso uomo, nella stessa esperienza di fede, il pontefice del Vaticano II che ha riconciliato la Chiesa col suo tempo, che ha guardato fisso negli occhi uomini tanto distanti tra loro, padre e fratello di tutti, che ha scosso col vento nuovo della sua parola, del suo sorriso, della sua immediata cordialità secoli di incomprensioni, arrivando nel cuore dei potenti e degli umili; lo stesso uomo che la sera annotava nelle sue agende i fatti di una routine talvolta persino banale (…), che non tralasciava le piccole pratiche devozionali (…), che trascorreva lunghe ore di veglia nella lettura di antichi dottori e che traeva dalla meditazione del breviario e dell’Imitazione di Cristo le armi più formidabili della sua azione di pastore?”.

Questo “mistero” trova risposte diverse, ispirate dalla sensibilità di ciascuno e che attingono alla “assoluta docilità di Roncalli a lasciarsi guidare dalla Provvidenza”, “o anche alla sua fine sensibilità che gli permetteva di cogliere i segni dei tempi”, “la sua capacità straordinaria di aprirsi al mondo con una genuina concessione di fiducia nella storia, di cui anche la fine cortesia e gentilezza erano un segno eloquente”.

Giorno dopo giorno Roncalli, “che seppe lanciare la Chiesa in una avventura i cui esiti furono inattesi quanto straordinari e al tempo stesso non temuti”, “affinò una sensibilità nei confronti del proprio tempo, che inquadrava e vivificava in un disegno più alto tratto dall’adesione al Vangelo, rendendola tale da farne il suo strumento di comprensione e di interpretazione del mondo contemporaneo e della storia, cosicché, infine, salito al sommo pontificato, seppe subito con sconcertante prontezza pronunciare le parole che il mondo aspettava e di cui sentiva, segretamente, il bisogno”.
 

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