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Fecondazione eterologa, una testimonianza oltre la pratica chirurgica

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Aleteia - pubblicato il 15/04/14
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La lettera di un’ostetrica “È quel senso di incompletezza che induce a cercare nella sessualità una complementarietà, che sia oltre l’unione di due corpi. Ma che non risolve il dramma umano”
La sentenza sulla fecondazione eterologa sta tenendo banco su tutti i rotocalchi. Ma pochi soggetti sembrano interessarsi al lato umano, evitando di immedesimarsi realmente nella vita delle persone coinvolte e restando perciò a una discussione superficiale e ideologica.

Tutti tranne Rosaria. Un’ostetrica che si è lasciata provocare, andando oltre la pratica chirurgica, per cercare una risposta. Riportiamo di seguito la sua toccante lettera pubblicata su Tracce.it il 14 aprile.

Riflettendo sulla sentenza in merito alla fecondazione eterologa mi viene in mente il volto di Maria (nome di fantasia), la cui storia dolorosa di sterilità ha la sua causa in un’ipotrofia ovarica congenita. Maria non ha mai mestruato. L’immagine successiva che affiora è il viso della piccola Francesca (nome di fantasia), che sorride, felice e certa dell’appartenenza alla madre, che sì l’ha portata in grembo, l’ha partorita, ma non è la sua genitrice biologica. La vita della piccola è frutto di un’ovodonazione, fecondazione in vitro con il seme del padre ed embryo transfer. Il mio primo pensiero è che Francesca arriva da molto lontano, è stata selezionata da un biologo fra altri embrioni per essere qui oggi a sorridere alla madre, che madre non è all’origine. 

Il padre è proprio il suo, lo sposo di sua madre. Suo padre è il seme, lo spermatozoo che ha fecondato un ovulo, separato dal corpo di un’altra donna. Penso quante separazioni innaturali, quante divisioni prima di arrivare alla vita di Francesca. Mi domando se nel profondo del suo essere possa percepire il disagio di chi arriva nel mondo dopo tutte le peripezie biologiche subite.

Mi domando se nel profondo della sua pelle, a quel livello di percezione che ogni essere vivente rileva dopo il concepimento, ha memoria del freddo del vetro della provetta. Primo contatto con il mondo altro da lei. Ci sarà nella sua profondità la memoria assordante di rumori da laboratorio o il bagliore di luci troppo forti per quel livello di “cellularità”, che è alla nostra origine, dove la vita accade nell’ombra? 

Un senso di tristezza
Le guardo e nasce in me un sentimento di tristezza. Tristezza per la madre, Maria, con il peso della sterilità che tuttora vive, il senso mancato della sua femminilità, negato dalla natura biologica. Natura matrigna che la confina a sostenere una vita senza la ciclicità ormonale, tipica del suo sesso, con tutta la ricchezza che comporta. 

Non so se l’ovodonazione ha risolto il dramma di questa donna, il senso di mancanza che condivido con lei, non perché sono sterile ma perché quel senso di vuoto è nella natura di ogni essere umano, di cui condivido la sorte. È quel senso di vuoto, di incompletezza che induce a cercare nella sessualità una complementarietà, che sia oltre l’unione di due corpi.

Oltre il concepimento
Nella relazione sessuale quell’oltre che i due amanti sperimentano è generativo sempre, oltre la loro biologia, oltre il concepimento di un figlio. Quell’oltre, quella novità creativa che scaturisce dalla loro intimità è una “relazione” unica, frutto della loro unione. La sterilità biologica non può confinare la natura umana nel perimetro di un limite, da cui dipende la realizzazione della persona. Quell’io è di più della sua natura biologica. La fertilità biologica non risolve quel senso di vuoto, che illusoriamente sembra essere compensato dalla nascita di un figlio. 

Quel figlio concepito in provetta, nella tuba o accolto dopo un’adozione non è la compensazione di un bisogno. È il dono misterioso di un Amore che precede tutto il creato. Con tutte le fecondazioni finte di ogni genere, o le manipolazioni genetiche non si può soffocare il desiderio di significato, la domanda che ogni essere umano ha sulla sua origine e neppure colmare quella mancanza, che ognuno sente come ferita aperta della sua umanità. 

Che dire alla piccola Francesca, sulla sua origine?
Guardo Francesca e guardo sua madre, sento uno struggimento amoroso, non un sentimento o un’emozione, ma qualcosa di più profondo che deriva da quello sguardo buono che ho incontrato anni fa, che non mi fa temere di incontrare un mistero alla mia origine, non mi fa temere di vivere una solitudine, una mancanza, una domanda esistenziale nel profondo. Quello sguardo buono è una compagnia al mio destino, che finora non mi ha mai abbandonata. Guardo Francesca e Maria e desidero essere loro compagnia al destino, nella verità della nostra misteriosa origine."

 

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