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Non prediche, racconti di popolo

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Copercom - pubblicato il 14/04/14
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Una riflessione sul ruolo del giornalismo cattolico e nonFrancesco Zanotti
Presidente della Federazione italiana settimanali cattolici

Il richiamo del segretario della Cei non può passare come se nulla fosse. Prendo molto volentieri l’occasione per entrare in argomento e cercare di comprendere, accogliere e incarnare quanto monsignor Galantino voleva dire a chi di mestiere si occupa di media cattolici.

Andiamo per gradi. Non mi vorrei soffermare solo sulla faccenda del bigotto, ma analizzerei tutta la risposta fornita all’amico e collega Luca Collodi della Radio Vaticana. “La comunicazione in Italia ha potenzialità straordinarie”. Vediamo questa prima frase. Immagino si riferisse al mondo dei mass media che appartengono alla Chiesa, vista la domanda sulla comunicazione cattolica. Io sono dello stesso parere: le potenzialità sono davvero tante. Tanti i mezzi e numerosi quanti vi operano, professionisti e volontari. Solo noi della Fisc siamo un esercito: 189 testate, quasi un milione di copie a settimana, oltre 500 dipendenti di cui ben più di 250 giornalisti, migliaia e migliaia i collaboratori, a cui si affianca tutto il lavoro proposto dall’agenzia Sir nata dall’esperienza dei settimanali cattolici. Una forza, di per sé, incredibile, diffusa e ramificata sul territorio come forse nessun altro in Italia.

Eppure, ci dice monsignor Galantino, “dovremmo essere meno bigotti, tutti quanti. Cioè dovremmo essere capaci di intercettare come gli altri e prima degli altri… Abbiamo fior di professionisti che per un malinteso senso di ecclesialità e di fedeltà alla Chiesa, diventano più bigotti dei bigotti. Questo tipo di comunicazione non va da nessuna parte”. Se così è, oppure, se anche così solo appare, non posso che essere d’accordo con il segretario della Cei.
Dove vanno a finire fior di professionisti che invece di confrontarsi piegano la schiena? Eppure gli esempi in senso contrario non mancano. Penso a monsignor Giuseppe Cacciami: un maestro per tutti noi della Fisc e non solo. Per amore della Chiesa e del Vangelo, in tema di mass media non si faceva convincere da nessuno. Se un messaggio doveva passare attraverso quei mezzi, si doveva usare un linguaggio adatto. È mirabile la testimonianza resa dal cardinale Camillo Ruini di uno scambio di battute fra lui, giovane segretario della Cei, e l’allora presidente della Fisc, al termine di un consiglio episcopale. Riporto il testo che ritengo illuminante per tutti noi.

“Inizio con un aneddoto, o meglio con il ricordo di un fatto accadutomi nell’ormai lontano 1987, quando ero da poco Segretario della CEI e tenevo una conferenza stampa dopo ogni sessione del Consiglio Episcopale Permanente, per presentare il comunicato finale dei lavori. Ci furono domande incalzanti e un confronto piuttosto acceso. Un sacerdote mio amico, che aveva molta esperienza di comunicazione sociale, Mons. Giuseppe Cacciami, allora Presidente della Federazione Italiana Settimanali Cattolici, aveva seguito la conferenza stampa e, qualche giorno dopo, mi disse che gli ero sembrato un teologo medievale il quale, armato della logica scolastica, disputava con i giornalisti, i quali si muovevano invece all’interno delle attuali logiche e modalità di comunicazione”. 

Noi siamo chiamati a fare i giornalisti. Punto. Non i giornalisti cattolici. Non mi stancherò mai di ripeterlo: cosa deve avere di diverso un giornalista cattolico da un giornalista che cattolico non è? Forse sarà meno giornalista? La nostra è una professione delicata, spesso nell’occhio del ciclone. Siamo chiamati a essere oltre che professionisti, soprattutto professionali. Non solo come gli altri, ma molto più degli altri, per vincere un certo pregiudizio attorno al nostro mondo.

Da credenti svolgiamo la professione di giornalisti. Mi pare tutta un’altra faccenda. Mi spiego: la fede che professiamo e che tentiamo ogni giorno di incarnare decide della nostra vita. Le dà un senso, un senso pieno, autentico. E ciò vale anche per la nostra professione. L’incontro con Gesù Cristo è decisivo anche per me che faccio il giornalista, così come lo è per chiunque. O crediamo a questo fatto così determinante o rischiamo il bigottismo, cioè dire e non fare, enunciare e non essere, il “per Dio” solo delle apparenze da cui deriva il termine bigotto.

Ripeto da anni in giro per tutta Italia che noi, nei nostri giornali diocesani, non siamo chiamati a fare informazione e formazione. Sarebbe come ammettere che l’informazione non può essere cristianamente ispirata e che dalle pagine di un giornale si deve fare catechesi. Noi, informando, da cattolici che fanno i giornalisti, formiamo cristianamente le coscienze. Le due fasi del nostro mestiere, un mestiere bello e affascinante, non si possono scindere. Certo, siamo chiamati ad usare gli attrezzi del mestiere, non altri. Guai se facessimo prediche dalle nostre colonne. Lo stile deve essere quello della carta stampata o quello che si usa online o per le tv e le radio. Eppoi, più che di editoriali, oggi si avverte il bisogno di rendere protagonista la gente, raccontando quelle storie di straordinaria quotidianità di cui sono ricche le nostre comunità locali. Il bravo giornalista, non bigotto, si pone in disparte, fa il narratore. Vede, scruta, scava e racconta, con occhi e cuore attenti alle persone. Non pone se stesso su un piedistallo, ma ha in mente il lettore, solo il lettore, quello a cui si rivolge ogni volta che si accinge a scrivere.

Tutti quanti abbiamo bisogno di un sano ripensamento del nostro ruolo e della nostra professione che io intendo anche come missione-vocazione. Le strategie possono essere diverse, ma la storia è sempre la stessa. Chi ha trovato il tesoro nel campo, va e vende tutto quello che ha per comprare quel campo. Ogni giorno si rinnova la stessa storia perché ogni giorno siamo chiamati a una nuova conversione: non è mai abbastanza ciò che rendiamo rispetto al centuplo quaggiù che abbiamo ricevuto. Il resto viene da sé.
 

Qui l’originale

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