separateurCreated with Sketch.

Come si ama il criminale?

whatsappfacebooktwitter-xemailnative
Miriam Diez Bosch - Aleteia - pubblicato il 12/04/14
whatsappfacebooktwitter-xemailnative

Intervista a suor Conchi, volontaria nelle carceriCi sono carcerati che quando la vedono pensano sia un'infiltrata, altri che desiderano ardentemente ascoltarla parlare di Dio. Questa giovane Domenicana della Presentazione, originaria di Almería (Spagna), ha condiviso con Aleteia le sue ragioni e ha raccontato cosa trova in carcere. Per lei la prigione è il luogo in cui si rendono più evidenti la miseria e la fragilità, ma anche la forza e la capacità di superare gli ostacoli.

Ha trascorso gli ultimi anni della sua vita in carcere, non come interna ma come volontaria. Cosa la spinge a compiere questo apostolato?

Personalmente, realizzare questo apostolato dà senso a ciò che mi chiede Dio. Mi spinge qualcosa di molto semplice: non ho grandi cose da raccontare, solo che l'essere umano passa per molti momenti nella vita, e nessuno è lontano da alcuno di essi.

Mi dedico a quest'opera perché credo che sia molto “abbandonata”, perché i poveri tra i poveri sono quelli che, oltre ad aver avuto una vita difficile e complicata, sono e continuano ad essere rifiutati da una società in cui predomina l'immagine.

Evidentemente, sono consapevole del fatto che non è facile separare l'essere umano dal crimine commesso e che non posso chiudere gli occhi o il cuore per non difendere la giustizia, ma paragono anche le opportunità che ho avuto nella mia vita a quelle di altre persone che non hanno avuto nulla. “Dare” a questo tipo di persone è ciò che può tirarle fuori dalla miseria, o almeno aiutarle.

Mi spinge anche la forza di sapere che esistono persone che possono uscire da questo mondo così chiuso per trovare qualcosa di nuovo, o almeno di diverso. È certo che non sempre si arriva a buon fine nelle cose che ci si prefiggono, ma dobbiamo rischiare per guadagnare qualcosa. Gesù non è venuto per curare i sani, ma i malati… Quindi dobbiamo collaborare, e chi sono io per giudicare?

L'atteggiamento cristiano sarebbe amare tutti, soprattutto i nemici. In carcere questa difficoltà di amare il criminale è più difficile?

Come esseri umani, speriamo sempre di trovare affetto, comprensione, pace, allegria… è il dono più grande che una persona possa avere. La cosa certa è che la vita, la società, le circostanze, ti portano a momenti in cui non è tutto così.

Ovviamente, amare e amare veramente l'altro con amore fraterno è meraviglioso, ma nel mondo in cui viviamo a volte risulta piuttosto complicato. Non parlo solamente di una persona in prigione, perché anche nelle relazioni sociali al di fuori di questo ambiente è difficile.

In prigione c'è un “plus”, ed è rappresentato dal fatto che chi è lì ha provocato un “danno” alla società, parlando in termini generali. È necessario separare, come dicevo prima, quello che è l'essere umano da quello che è il crimine che ha potuto commettere.

Umanamente si possono vedere le preoccupazioni, le sofferenze, il male commesso e anche il pentimento; quando accade questo, si può arrivare a camminare con queste persone.

Con ciò non voglio eludere la parte di responsabilità, che tra l'altro ritengo necessaria per la “guarigione” totale della persona. Credo che sia possibile amare anche stando in prigione, non c'è dubbio. Gesù afferma che il bene che facciamo a uno di questi piccoli lo facciamo a Lui, e ovviamente è questa parte umana che non possiamo abbandonare.

Cosa le chiedono i carcerati vedendo una religiosa?

I carcerati “hanno sete” di qualcuno che li ascolti e che li ami. Credo che sia la cosa che desiderano di più, perché bisogna tener conto del fatto che non tutti hanno l'esperienza di sentirsi amati, anzi; piuttosto, sono stati rifiutati da sempre e hanno dovuto camminare completamente soli nella vita.

Evidentemente ci sono casi diversi e si potrebbe parlare di molte cose, ma il profilo della maggior parte si inserisce in questa linea. Ci si adattano, ma sperano anche che tu dica loro le cose come le pensi, anche se questo presuppone il fatto di metterli “alle strette”.

Cerco di ascoltarli, ma dico anche loro che hanno sbagliato e che devono rileggere tutto ciò che hanno fatto nel corso della vita. La pacca sulla spalla va benissimo, ma se non è accompagnata dal riconoscere le debolezze e le miserie di ciascuno non serve a nulla.

Sperano che parli loro di tutto questo, e vogliono anche sapere cosa accade fuori dalla prigione, com'è tutto. In questo modo li si apre alla vita, si dà loro una nuova spinta. A volte mi chiedono se sono davvero religiosa, pensano che sia un'infiltrata!

Quelli che mi conoscono un po' di più arrivano a condividere in profondità ciò che li ha condotti lì e com'è stata la loro vita, e sperano che parli loro di Dio, di quel Dio che ama e perdona, di Colui che è tutto misericordia.

Come applica il carisma della sua congregazione a questo campo?

Non è affatto complicato applicare il carisma della congregazione alla pastorale penitenziaria, perché sia San Domenico, che ha venduto tutti i suoi libri per aiutare i poveri, che Marie Poussepin, che puntava sui più sfortunati, mi hanno parlato del bisognoso in ogni momento.

Bisogna sottolineare che solo Dio può cambiare il cuore. Noi siamo uno strumento per parlare di Lui. Devono conoscere e fare esperienza.

Convinca un indeciso a diventare volontario in prigione…

Il mondo della pastorale penitenziaria è appassionante. È qui che ho fatto un'esperienza reale di ciò che significano e sono la debolezza e la forza umane… come l'essere umano può arrivare a cadere nell'abisso profondo ma anche come l'uomo può rialzarsi e tornare a galla. Dare una motivazione, una ragione, un aiuto per continuare a vivere, per avere desiderio di cambiare, di lottare, di non stancarsi… è incredibile.

Non tutto è perduto. Non sono “cose” che rinchiudiamo perché danno fastidio alla società; sono semplicemente persone che con l'aiuto di altre possono risorgere dalle ceneri. Sentir parlare di Dio è per loro una boccata d'aria fresca, per loro che si sentono tanto identificati con il Cristo sulla croce, il sofferente… Quando fai scoprire loro che Dio non è rimasto sulla croce ma è risorto, e che li ama, raccolgono le forze e iniziano a credere in se stessi.

Spendersi in questa missione è collaborare e non chiudere a chiave l'essere umano, è aprirgli il cuore e la vita. È tipico dire che apporta più di ciò che si può offrire, ma in questo caso è una realtà. È una formazione costante, per loro ma anche per la persona che collabora, perché aiuta a porsi nella vita in modo diverso e a sapere come siamo e quanto siamo vicini o lontani da tutto questo.

[Traduzione a cura di Roberta Sciamplicotti]

 

Top 10
See More