Su fecondazione eterologa e diritto al figlio. E su certe spinte un po’ troppo insistenti al «dovere» procreativo
La sentenza della Corte Costituzionale sulla Legge 40 che considera inammissibile il divieto alla fecondazione assistita eterologa apre un’infinità di scenari, antropologici e politici prima che giuridici: ne sintetizza bene alcuni il cardinale Ruini in questa intervista ad Andrea Tornielli.
Mentre scrivo questi pensieri, vedo davanti a me con gli occhi del cuore i volti dei protagonisti di almeno un paio di vicende. Persone molto care che hanno vissuto percorsi diversi con esiti diversi. E che hanno voluto condividerli, con me e mia moglie, nell’amicizia e anche nella preghiera.
So quindi quanto sia delicato questo argomento.
Ma per quanto dura sia, la questione è che non esiste il diritto al figlio.
C’è, nel migliore dei mondi possibili ovviamente, il desiderio di essere genitori, e quello ad esso collegato di esserlo il meglio che si può. E ovviamente il desiderio di avere figli sani e persino belli, toh. E prima ancora ci sarebbe il desiderio di essere coppia e poi sposi, felici e pieni di Grazia per giunta. E, risalendo ancora indietro, il desiderio di essere persone adulte e solide, che imboccano la strada per rispondere alla loro unica e specialissima vocazione, è bellissimo e legittimo.
Ma possiamo pretendere che tutti questi desideri siano esigibili? O che un giudice o un medico, almeno fin dove i mezzi dell’uomo possono, ne impongano la realizzazione?
Possiamo, e a volte persino dobbiamo, arrabbiarci e finanche bestemmiare – penso a certi Salmi – quando ci succedono cose e vediamo sofferenze che non riusciamo a capire. Ma non esiste il diritto alla realizzazione dei nostri desideri. Senza contare che a volte sono solo bisogni: non vengono "dalle stelle".
Mi viene in mente una lettura particolare della storia di Abramo che trovo provocatoria ma bella e utile. Quella che vuole Ismaele, generato con Agar, come "figlio del progetto" dell’uomo, testardamente voluto per garantirsi una discendenza, comunque benedetto ma poi lasciato al suo destino; e vede Isacco, avuto poi dalla sterile Sara, come il "figlio della promessa" di Dio, destinato a succedere al padre nell’eredità dell’Alleanza e nella paternità del popolo di Dio. Il progetto e la promessa, il modo dell’uomo e il modo di Dio.
Mi chiedo: che parte hanno e hanno avuto nella formazione di questo preteso "diritto" certe spinte spiritualistiche e moralistiche, ma non spirituali, al "dovere" procreativo?
Lasciamo per un attimo a margine la questione della contraccezione.
Parlo della necessità, della opportunità di avere un figlio: quanti di noi non hanno almeno una volta sentito o percepito intorno a sé che bisogna avere un figlio (e anche più d’uno) per potersi dire davvero donne, madri, padri, coppia, sposi, etc etc? E cioé per potersi sentire "a posto" con Dio, con la Chiesa, con la propria coscienza, se non addirittura con le aspettative di una intera comunità?
Io che ho avuto il regalo di averne tre di figli, e di attenderne un altro, faccio proprio fatica a sentirmi più a posto di fronte a Dio di quei miei amici "sterili" da cui ho imparato tanto. Anche a non considerare i figli come un diritto.