Intervista a monsignor Francesco Braschi, presidente dell’Associazione Russia Cristiana.di Stefano Magni
La crisi ucraina non accenna a rientrare. Proprio in questi due giorni, dopo la Crimea, anche Donetsk proclama unilateralmente la sua secessione da Kiev e l’intenzione di farsi annettere dalla Federazione Russa, facendo temere un nuovo intervento armato di Mosca in territorio ucraino. Su quel che sta avvenendo in quella parte di Europa è bene, prima di tutto, far chiarezza. A questo proposito abbiamo avuto l’occasione di incontrare e intervistare a Milano, al Centro Culturale San Fedele, monsignor Francesco Braschi, Dottore della Biblioteca Ambrosiana e presidente dell’Associazione Russia Cristiana.
«Cosa è successo al Maidan? – si chiede e ci chiede monsignor Braschi – Non si sono scatenate manifestazioni oceaniche per la volontà di entrare nell’Ue, dopo che è stata negata la firma del presidente Yanukovich all’Accordo di Associazione con Bruxelles. Perché quando è stato diffuso l’annuncio della mancata firma, si radunarono in piazza circa 5mila persone. Ma quando questi manifestanti, in gran parte giovani, vennero selvaggiamente picchiati dalla polizia, quando venne messa in atto, nei loro confronti, una pratica di potere ben conosciuta nell’epoca pre-1989, non conforme neppure alla legge ucraina, quando si sparse la notizia di queste violenze, i manifestanti non erano più solo 5mila, ma 50mila. Ed è cambiata anche la costituzione delle persone in piazza: non più solo attivisti, intellettuali e studenti, ma uomini comuni, donne, madri, nonne e nonni, persone che si sono sentite profondamente offese nella loro dignità. Persone che non erano più disposte a tollerare che il governo, qualunque fosse la sua ideologia, utilizzasse metodi brutali contro la popolazione che era chiamata a servire e di cui è espressione. Il Maidan rappresenta una sfida, “per la nostra e la vostra libertà”, come si leggeva in uno slogan di piazza Maidan. “Per la nostra e la vostra libertà”: la stessa scritta che si leggeva anche in occasione della Primavera di Praga, nel 1968. Quello che il Maidan ci insegna è il risveglio della propria coscienza, della propria dignità. Ed è una provocazione per noi. Perché l’appello agli ideali europei arriva a cadere in un’Europa che si è dimenticata dei suoi valori. Perché oggi, nella nostra parte di Europa, prevalgono il cinismo, la disillusione, la non volontà di credere che possano esistere delle spinte ideali capaci di cambiare il corso della storia».
La volontà di non credere o l’incapacità di credere è un aspetto molto evidente: ogni volta che si parla dell’Ucraina e della sua rivoluzione, la prima reazione è l’incredulità, seguita dall’elaborazione di una serie di teorie del complotto, secondo le quali il Maidan non sarebbe affatto una rivoluzione, bensì un golpe architettato dagli Usa e dall’Ue. Cosa dire a coloro che non credono ad alcuna delle motivazioni di chi ha perso la vita, o l’ha rischiata sul Maidan nel nome di ideali di libertà? «Il problema fondamentale è porsi una domanda – ci spiega monsignor Braschi – Esiste qualcosa di diverso dai grandi complotti? È chiaro che non esistono solo forze che agiscono alla luce del sole. La vera domanda, però, è “quanto mi metterei in discussione se riconoscessi che non esiste solo un giudizio astratto, estraneo all’esperienza concreta, che si conclude solo con un aumento di cinismo?” Anch’io ho molti amici con cui discuto spesso del Maidan. E chiedo loro: perché hai paura di ammettere che esiste anche una realtà, fatta di uomini e donne in carne ed ossa, del loro cuore e della loro fede, che va oltre alla logica dei grandi giochi politici?».
Dopo la Crimea anche Donetsk rischia di essere annessa dalla Federazione Russa
. Un argomento su cui insistono molto certi media italiani è che la Crimea e l’Est ucraino vogliano essere russi. «Non si può parlare stando dietro a una scrivania e pensare di esprimere un parere a nome di decine di milioni di ucraini. Le vie di espressione della propria volontà sono quelle democratiche. Nessuno mette in dubbio il diritto di una regione di autodeterminarsi. Ma la domanda vera è se sia corretto proporre un referendum dopo aver oscurato tutti i canali di espressione dell’opposizione e dopo aver occupato il territorio, con militari senza insegne, anche se non si era in presenza di uno stato di guerra. Non si può proporre un’immagine di Ucraina russofoba o russofila, il problema è chiedersi seriamente: non è che, forse, gli ucraini abbiano il diritto di costruirsi la loro identità nazionale? Si tratta di una identità molto giovane, di appena vent’anni. Ma sul Maidan, una generazione di ucraini che non hanno vissuto in una regione appartenente all’Urss, ma in un Paese indipendente, ha dimostrato che una coscienza nazionale esiste già. E questa ha diritto di esprimersi. Non si può rivendicare in astratto il diritto di autodeterminazione. Questa richiesta si situa in un territorio che non è in una terra di nessuno, ma al centro dell’Europa. Un professore dell’Università di Mosca, Andrej Zhubov è stato licenziato per un suo articolo in cui trovava impressionanti analogie, di metodo, fra ciò che sta avvenendo ora e quel che avvenne con l’annessione dell’Austria e dei Sudeti prima della Seconda Guerra Mondiale. Visti gli ultimi eventi in Crimea ed ora anche nell’Est ucraino, ci si chiede se si sia di fronte a reali processi di autodeterminazione, oppure a una “politica del carciofo”».
A proposito di nazismo, è molto diffusa l’idea per cui fra gli insorti ucraini del Maidan domini una componente hitleriana. Ma monsignor Braschi ci invita a ridimensionare la portata del fenomeno, «amici che erano presenti sul Maidan, che non possono sicuramente essere ricondotti a ideologie neonaziste, assicurano che la componente di estrema destra fosse minoritaria e legata alla degenerazione della protesta, soprattutto nelle sue ultime fasi. Ma quella componente resta marginale, non esprime affatto lo spirito del Maidan. Anche a più di un mese da quegli eventi, non c’è stata alcuna caccia all’uomo, non ci sono state violenze contro i vinti, non ci sono state vetrine distrutte, i poliziotti feriti sono stati curati dagli stessi manifestanti. Non è una umanità “nazista” quella che si vede a Kiev. Voler puntare tutto sulla presenza di questi gruppi, sarebbe come dire che l’Italia sia a rischio fascismo solo perché esistono piccoli partiti neofascisti che esprimono qualche consigliere comunale».
La Chiesa ortodossa ha espresso la sua unità durante le giornate dell’insurrezione. Sacerdoti cattolici, ortodossi del Patriarcato di Mosca, della Chiesa autocefala e del Patriarcato di Kiev, erano per una volta assieme in piazza. Oggi, però, arrivano segnali contrastanti. Dagli ortodossi del Patriarcato di Mosca, in Ucraina, arrivano appelli all’unità dell’Ucraina, non sempre ripresi dagli esponenti della stessa Chiesa che abitano in Russia. «Vedo tutta la drammaticità di questi eventi – commenta monsignor Braschi – Kiev è il luogo del battesimo della Rus’ e ciò spiega perché la maggior parte dei fedeli ortodossi ucraini appartenga al Patriarcato di Mosca. Questa è la fatica di una Chiesa ormai plurinazionale, con una giurisdizione che va oltre i confini della Federazione Russa. Questo è un travaglio, ma anche una prova che il Signore pone a loro, che riguarda la loro identità di credenti. Con molto rispetto e molta sofferenza, non pos
so che stare accanto ai nostri fratelli ortodossi. Spero soltanto che la comune fede li aiuti a trovare una soluzione, che non sia di divisione, né di avallo della violenza nei confronti di altri cristiani. Due anni fa conobbi il metropolita Vladimir, che era in una condizione di salute molto precaria. Il cambio al vertice con Onofrio è avvenuto per questo motivo. Da quello che ho letto nelle sue dichiarazioni, mi sembra che il metropolita Onofrio abbia una posizione che comunque parte dalla fede e dettata da una grande saggezza. E mostra, comunque, come un ortodosso appartenente al Patriarcato di Mosca possa sentirsi pienamente ortodosso, pienamente cristiano, senza negare l’appartenenza a una nazione che non è la Federazione Russa».
Come si spiega, però, che così tanti cristiani italiani siano attratti da Vladimir Putin? «C’è, prima di tutto, una virtù cristiana da non dimenticare che è il discernimento. Occorre sempre distinguere, anche nel caso di un presidente, fra le azioni buone e azioni cattive. E questo non vale solo per Putin, ma per qualunque capo di Stato. Riconoscere la bontà di certe politiche, a tutela dei valori cristiani, non deve impedire di riconoscere che altre azioni contrastano radicalmente una visione cristiana della storia e della dignità della persona. È facile cadere nella tentazione di cedere interamente la salvaguardia della Fede a un imperatore, a un potere politico. È una tentazione molto forte e molto antica. Se si legge “Il racconto dell’Anticristo” di Soloviev, riconosce come questa tentazione sia valida in tutte le epoche e a tutte le latitudini. Mi viene anche da dire che noi cristiani occidentali abbiamo una tradizione (e penso a Sant’Ambrogio o a Sant’Agostino) che dovrebbe insegnarci qualcosa sui rapporti con l’imperatore. Se l’abbiamo dimenticata, penso sia solo un sintomo dell’indebolimento della nostra coscienza cristiana».