Una “cattiva” teologia, disarma il credente nel suo rapporto col mondoAlla vigilia dell'inizio della discussione al Senato del disegno di legge sull'omofobia, e mentre parallelamente si intensificano i tentativi di riconoscere le unioni civili, vogliamo proporre una riflessione sui criteri fondamentali con cui giudicare queste vicende politiche e legislative. Il testo di monsignor Antonio Livi, autore del rcente volume è la sintesi di un intervento svolto nei giorni scorsi a una conferenza organizzata dall'Associazione Internazionale Tomas Tyn.
Si parla giustamente del “dono della fede”, riconoscendo che la comprensione e l’accettazione della verità rivelata da Dio è possibile solo se Dio stesso, con la sua grazia, dispone i nostri cuori a “voler credere” i misteri soprannaturali, che evidentemente sono credibili ma anche oltremodo impegnativi. Ma non si tiene in sufficiente considerazione che, prima del “dono della fede”, e come condizione di esso, c’è il “dono della ragione”.
Senza la ragione – che Dio dona a ogni uomo, rendendo la creatura umana «immagine e somiglianza» del Creatore -, non sarebbe possibile la comprensione e l’accettazione della verità rivelata da Dio, perché nessun uomo potrebbe entrare in possesso dei praeambula fidei (ossia della premesse razionali della fede, che sono di natura metafisica) e venire a conoscenza dei “motivi di credibilità” (ossia di quei fatti di natura empirica e storica che portano all’evidenza che il Vangelo è credibile e chi lo annuncia è affidabile). Insomma, la verità naturale, raggiunta con la ragione, è il fondamento necessario della verità soprannaturale che ci è proposta con la Rivelazione. Ciò significa che nessuna delle verità che noi cristiani professiamo per un motivo di fede e che costituiscono il dogma e la morale sono indipendenti dalle verità fondamentali – sia metafisiche che morali – che stanno da sempre nella coscienza di tutti gli uomini.
Come ha ricordato Giovanni Paolo II, prima con l’enciclica Veritatis splendor e poi con l’enciclica Fides et ratio, queste verità fondamentali costituiscono il grande patrimonio di sapienza naturale dell’umanità e sono alla base della religione naturale e delle tradizioni giuridiche di ogni civiltà. Di conseguenza, quando noi cristiani entriamo nel dibattito pubblico sulla questione morale, non possiamo partire dal falso presupposto che non ci sia alcuna verità assoluta e che ogni persona, ogni gruppo sociale si debba regolare in base alle proprie arbitrarie opinioni. Quando si tratta di questioni riguardanti il bene e il male morale, e quindi i diritti e i doveri dei singoli e delle società, la distinzione tra verità assolute e mere opinioni va sempre tenuta presente.
Quelle che ogni uomo è in grado di riconoscere in coscienza come verità assolute non sono materia di compromesso politico, e per questo Benedetto XVI le ha denominate «principi non negoziabili», ossia giudizi morali di valore universale dai quali partire come il necessario presupposto di ogni dialogo di etica pubblica.
Certamente, in politica occorre trovare l’accordo tra le diverse forze contrapposte e i diversi interessi in gioco, e ciò comporta tutta una serie di compromessi, ossia la disponibilità di tutti a confrontare le proprie iniziative con quelle degli altri e a discuterne la convenienza, pronti tutti all’occorrenza a fare un passo indietro. Insomma, nel pubblico dibattito e specificamente nel dibattito politico sui diritti della persona e sulle istituzioni della convivenza sociale, a partire dalla famiglia, tutto può essere discusso o rimesso in discussione: ma solo quando si tratta, non dei principi della morale naturale, bensì delle diverse ipotesi di possibile o migliore applicazione di questi principi alla realtà sociale del momento.
Quando i cristiani dimenticano questo criterio fondamentale della logica aletica – quando cioè fingono di ignorare i dettami della ragione umana universale, che sa riconoscere i luoghi e i tempi della verità, distinguendo in ogni caso tra doverose certezze (di per sé indiscutibili) e legittime opinioni (sempre discutibili) – essi si uniformano ingiustamente all’irrazionalismo dell’etica pubblica oggi dominante nella società secolarizzata. Così facendo, però, essi rinnegano i presupposti razionali della loro stessa fede e inoltre si rendono incapaci di contribuire al bene comune della società civile. Invece di aiutare i propri concittadini a trovare le vie possibili di applicazione dei principi del diritto naturale, contribuiscono alla sua sostituzione con l’arbitrio del diritto positivo, arbitrariamente manipolato da chi manovra l’opinione pubblica con la retorica della democrazia e del progresso civile, e sulla base del consenso elettorale gestisce il potere. Giustamente Benedetto XVI contrapponeva la necessaria difesa dei «principi non negoziabili» al cedimento alla «dittatura del relativismo» da parte degli uomini di buona volontà, e in particolare da parte dei credenti.
La colpa di questa debolezza di pensiero (dico “debolezza” perché si tratta proprio dell’adozione delle categorie scettiche del “pensiero debole” di Vattimo) nell’azione pubblica dei cristiani è da attribuire soprattutto alla cattiva teologia dei nostri giorni. Dimenticando colpevolmente gli insegnamenti del Magistero (da Pio XII al Vaticano II, da Giovanni Paolo II a Benedetto XVI), molti teologi hanno re-interpretato la fede cristiana in chiave fideistica (soggettivistica, emozionale, volontaristica, sentimentale) e indotto così i laici cattolici, affetti da un assurdo complesso di inferiorità, a presentare i principi della dottrina sociale della Chiesa, non per quello che effettivamente sono – principi evidenti e indiscutibili del diritto naturale, espressione della più coerente razionalità e quindi validi per tutti gli uomini di ogni tempo e di luogo – ma come se si trattasse di “opinioni” particolari dei credenti, di posizioni confessionali incapaci di giustificarsi in sede di discussione politica in un quadro istituzionale “laico”.
Presentando così, in modo fideistico, quelle che sono le istanze più genuine della ragione naturale (che la Rivelazione, custodita e interpretata dalla Chiesa, non contraddice bensì convalida e rafforza), i cattolici non sono più capaci di offrire valide alternative alle ideologie del materialismo edonistico, dell’individualismo libertino, del nihilismo che pretende di imporre come leggi dello Stato le pratiche ispirate a una irresponsabile cultura di morte (dall’aborto all’eutanasia) che, non avendo a proprio favore alcun serio argomento di diritto privato o di diritto pubblico, si possono imporre solo attraverso la propaganda, con la manipolazione delle coscienze.
In un momento storico nel quale le ideologie contrarie al diritto naturale pretendono di imporsi solo perché sociologicamente appaiono come opinione della maggioranza, o almeno dell’ala più moderna e progredita della società civile, quei cristiani che per la loro debolezza di pensiero non sono più consapevoli della verità assoluta dei valori etici naturali che la Chiesa riconosce come parte essenziale delle premesse razionali della fede nella rivelazione soprannaturale, non sono capaci di contribuire in alcun modo a promuovere leggi giuste e a combattere leggi inique.
Essi sono inevitabilmente già sconfitti in partenza quando presentano i principi indiscutibili della dottrina sociale della Chiesa come mere opinioni religiose, avanzate dall’ala più tradizionalistica e retrograda della cultura cattolica. La necessaria critica culturale alle ideologie di morte e l’altrettanto necessaria resistenza civile alle leggi inique (che in quanto illegittime non meritano né rispetto né tanto meno obbedienza) non debbono essere presentate come mere istanze fideistiche, come eccentriche “sensibilità” religiose, e tanto meno come ingerenza della Chiesa negli affari dello Stato, perché così è inevitabile che accada – come di fatto sta accadendo in tutti i Paesi di antica tradizione cattolica – che questa critica e questa resistenza non siano condivise per principio dai non credenti, i quali mai accetteranno che certi “pregiudizi” religiosi possano mettere in discussione le leggi dello Stato.
La critica culturale alle ideologie di morte e la resistenza civile alle leggi inique dovrebbero essere sistematicamente e coerentemente praticate, avvalendosi di tutti i mezzi leciti che i sistemi democratici consentono, come responsabile e coraggioso servizio al bene comune, che solo la ragione “forte” sa riconoscere nella dottrina e sa promuovere attraverso l’azione sociale, comprese le leggi nazionali e internazionali. Invece, a causa della pessima formazione teologica (inficiata di fideismo), i cattolici sono entrati nel dibattito pubblico senza alcuna convinzione di principio, pronti a seguire la corrente (la deriva secolaristica) e a tentare di “limitare i danni”, con iniziative culturali e politiche che manifestano la loro sudditanza psicologica nei confronti delle ideologie di morte. Invece di proclamare e difendere i principi veri, non negoziabili, hanno deciso di negoziare i modi e i tempi per attuare uno dopo l’altro tutti i principi falsi, come sono quelli che vorrebbero dare una giustificazione etica e giuridica alle leggi che consentono l’aborto, l’eutanasia di anziani e di bambini, il matrimonio omosessuale, persino l’animalismo e la pedofilia.