La Bibbia è il grande codice culturale dell’occidente
«Nonostante ogni rigetto o smemoratezza, la Bibbia costituisce – per dirla col titolo del celebre saggio di Northrop Frye – «il grande codice» della nostra cultura, il Vangelo è la sorgente della nostra civiltà, come asseriva Kant, e il cristianesimo «la lingua materna» dell’Europa, per usare una ben nota definizione di Goethe. Ecco, allora, da tempo moltiplicarsi i testi che approfondiscono la cosiddetta Wirkungsgeschichte, ossia la "storia degli effetti" che le Sacre Scritture e, più in generale, il patrimonio culturale cristiano hanno indotto nel nostro pensare, dire e agire». E’ così che il Cardinal Gianfranco Ravasi in un editoriale sul Sole 24 Ore (30 marzo), apre ad una riflessione tra letteratura e Sacra Scrittura. Un connubio naturale, la parola di carta, la parola che narra sebbene con finalità diverse può – e spesso trova – punti di contatto e di decifrazione reciproca. Ecco perché il saggio della teologa e filologa Karin Schöpflin, “La Bibbia nella letteratura mondiale”, (Queriniana) ci apre ad un mondo di continui rimandi biblici nella letteratura occidentale. Anche in autori insospettabili o in opere apparentemente di nicchia.
«La folla degli autori coinvolti – all’appello rispondono tutti i maggiori dall’Alighieri a Tolstoj, tanto per evocare gli estremi alfabetici più significativi – rivela una sorprendente sintonia con le Scritture Sacre, talora in forme inattese, altre volte in modo provocatorio», spiega Ravasi che ci introduce ad un altra antologia, questa volta a cura di padre Antonio Spadaro, che apre una finestra sulla letteratura americana, grazie alla quale si va dal profeta e pioniere Walt Whitman e dalla indimenticabile Emily Dickinson, dalla «commedia umana» dell’antologia di Lee Masters o ancora dal «ring metafisico del mondo selvaggio» di London fino all’«intelligenza lirica» di Ferlinghetti, all’«epica delle cose e delle immagini» e alle loro epifanie di un Williams o della Bishop, fino a quello «strano solitario pazzo mistico cattolico», come si autodefinì Kerouac. È proprio il ritratto di questa icona della beat generation a sorprenderci per la sua insonne spiritualità, affidata a lettere, preghiere, poesie, invocazioni rivolte a Dio, a Gesù, persino a san Paolo: «Dio, devo vedere il tuo volto questa mattina, il Tuo Volto attraverso i vetri polverosi della finestra, fra il vapore e il furore; devo sentire la tua voce sopra il clangore della metropoli… ». E così On the road diventa un pellegrinaggio e beat è la prima battuta evangelica di beatitude: «Un pomeriggio andai nella chiesa della mia infanzia a Lowell, Massachusetts, e a un tratto, con le lacrime agli occhi, quando udii il sacro silenzio della chiesa, ebbi la visione di che cosa avevo voluto dire veramente con la parola Beat, la visione che la parola Beat significava beato… »