Sulla processione in cui la ‘ndrangheta aveva ancora l’ultima parola. E sull’impegno dei cattolici di fronte alla criminalità organizzatadi Paola Springhetti
Il giorno di Pasqua anche a Stefanaconi, vicino a Vibo Valentia, si ripete un'antica tradizione: la processione dell'Affruntata, in sostanza una sacra rappresentazione dell'incontro tra Maria e il Cristo risorto. La statua di Cristo, dunque, viene portata a spalla ad incontrare quella della Madonna Addolorata, ma c'è anche un terzo personaggio, che permette l'incontro: si tratta dell'apostolo Giovanni, anch'egli rappresentato da una statua. E chi porta la statua di Giovanni? Questo lo decide la 'ndrangheta, che sulla processione e sulla festa che l'accompagna ha sempre avuto molta influenza. Sembra proprio, infatti, che la processione sia stata finanziata dal boss Fortunato Patania fino al 2011 quando è stato ucciso all'interno di una faida. Secondo i magistrati della Dda di Catanzaro, le nuove leve ed i vertici della cosca avevano il «potere assoluto sul trasporto della statua di San Giovanni».
E il parroco? Sapeva e non faceva niente. Lo ha detto una nipote – pentita – del suddetto boss. E poiché la Procura di Catanzaro ha deciso di svolgere indagini sulla sua partecipazione alla 'ndrina, è stato trasferito.
La notizia è uscita sui giornali del 28 marzo, senza troppo clamore: che i rapporti tra Chiesa e mafia siano stati pesanti in passato e che in alcuni casi ancora sussistano è noto. Mi ha colpito il fatto che tutto questo sia avvenuto pochi giorni dopo la XIX Giornata della memoria e dell'impegno in ricordo delle vittime di mafia, organizzatata da Libera il 22 marzo a Latina.
C'erano molti cattolici, a quella marcia. Nel corteo tanti scout facevano il servizio d'ordine e i gruppi dell'Azione cattolica sventolavano le loro bandiere. C'era anche un gruppo Gen, e molti credenti stavano tra coloro che marciavano dietro agli striscioni del volontariato, dei sindacati, degli enti locali. C'erano cattolici tra gli organizzatori della giornata e tra quelli che avevano dato il via a decine di incontri preparatori per coinvolgere il territorio. C'erano cattolici tra i familiari delle vittime che aprivano il corteo, portando lo striscione e ascoltando in silenzio il microfono che declamava i nomi di quelle vittime; c'erano nomi di cattolici in quell'elenco che non finiva mai – oltre 900 – c'erano volti di cattolici sugli striscioni (magistrati e sacerdoti come don Pino Puglisi, don Peppe Diana, don Cesare Boschin) e sul palco delle autorità. C'erano cattolici tra gli insegnanti che hanno lavorato sul tema delle mafia con i loro studenti e c'erano tra i tanti, tantissimi studenti di tutte le età. Ragazzi che sfilavano con gli zainetti sulle spalle, i tagli di capelli creativi, i leggings stretti stretti; ragazzi con cartelli e striscioni che strappavano il cuore, perché portavano i volti e i nomi dei loro coetanei uccisi dalla mafia; ragazzi che guardavano le finestre chiuse sul largo viale percorso dal corteo e gridavano: «vieni giù, vieni giù, manifesta pure tu».
Ragazzi che, spero, quella notizia di pochi giorni dopo non l'abbiano vista, loro che non sanno dei boss che tenevano i libri di devozione sul comodino o i santini nel portafoglio e che li usano nelle cerimonie di iniziazione; non sanno delle tradizioni popolari inquinate e controllate dalle mafie; dei preti che ancora oggi minimizzano la presenza della criminalità organizzata nelle loro parrocchie e usano troppe parole di circostanza; non sanno quanti cattolici collusi ci sono stati e ci sono ancora in politica (secondo Letizia Paoli, tra il '50 e il '92 la percentuale di parlamentari democristiani apertamente sostenuta dalla mafia era del 40-75%).
Tutto questo nonostante il grido di Giovanni Paolo II nella Valle dei Templi, il 9 maggio '93: «Il denaro insanguinato, il potere insanguinato: non potrai portarlo all'altra vita». Nonostante l'abbraccio di papa Francesco a don Ciotti, il fondatore di Libera che troppo spesso è stato guardato con diffidenza e sospetto all'interno della Chiesa. Ciotti che, prete davanti al capo della sua Chiesa e in una chiesa (S. Gregorio VII, a Roma), ha invitato la Chiesa a fare autocritica, a rompere gli indugi e a non collaborare mai più. Sia papa Giovanni Paolo II sia papa Francesco – che ha prospettato ai mafiosi l'inferno – hanno invitato i mafiosi a convertirsi. Ma anche chi li sostiene direttamente o indirettamente, o chi semplicemente fa finta di nulla deve ancora convertirsi.
Molte cose sono cambiate, anche in questo campo, negli ultimi anni, come racconta Annachiara Valle nel suo libro "Santa malavita organizzata" (San Paolo 2013), grazie all'impegno di laici, sacerdoti e vescovi come mons. Bregantini. Ma la conversione non è finita.
Continuiamolo, questo cammino verso la legalità senza se e senza ma, prima che quei ragazzi che a Latina scandivano «l'Italia è nostra, non di Cosa nostra», non debbano scoprire che bisogna scendere in piazza con uno slogan un po' diverso: «La Chiesa è nostra, non di Cosa nostra».