L’omelia del cardinale Sean O’Malley alla Messa di suffragio per i migranti che muoiono nel deserto dell’Arizona tentando di raggiungere gli Stati UnitÈ stata una giornata molto significativa ieri per la Chiesa degli Stati Uniti. Nel cuore della Quaresima il cardinale arcivescovo di Boston Sean O’ Malley insieme a una delegazione di vescovi della conferenza episcopale ha presieduto una celebrazione eucaristica a Nogales, nel deserto dell’Arizona, al confine sempre più sbarrato con il Messico. Una Messa di suffragio per quanti sono morti nel tentativo di raggiungere gli Stati Uniti, con un richiamo esplicito al gesto analogo compiuto da Papa Francesco a Lampedusa. E insieme anche un modo per porre all’attenzione della politica americana la questione della riforma della legislazione sull’immigrazione che resta arenata al Congresso. Proponiamo qui sotto una nostra traduzione della parte centrale dell’omelia molto forte pronunciata dal cardinale O’Malley (a questo link il testo integrale in inglese).
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Il Vangelo di oggi si apre con un certo dottore della legge che sta cercando di mettere alla prova Gesù. Lui è un esperto delle leggi, ma è ostile a Gesù; sembra ansioso di sapere come raggiungere la vita eterna, ma il suo vero intento è cogliere in fallo Gesù in un dibattito pubblico. Gesù risponde alla domanda dell’uomo chiedendogli: «Che cosa c’è scritto nella legge?». E il dottore della legge risponde a dovere, citando il grande comandamento: ama Dio sopra ogni cosa e il prossimo tuo come te stesso.
Gesù dice: «Hai risposto bene. Fa questo e vivrai». L’amore di Dio e l’amore del prossimo sono la chiave per una vita buona. E l’insegnamento più stupefacente del Vangelo è proprio quanto l’amore di Dio e l’amore del prossimo siano intimamente tra loro collegati.
Ma il dottore della legge è un po’ imbarazzato e per questo formula un’altra domanda per apparire intelligente e perspicace. E la domanda è importante: «Chi è il mio prossimo?». Questa magnifica domanda offre a Gesù l’occasione per donarci una delle più grandi parabole del Nuovo Testamento – la parabola del Buon samaritano.
Al tempo di Gesù l’espressione «Buon samaritano» non veniva mai utilizzata dal popolo eletto. Sembrava un’espressione contraddittoria. Come poteva qualcuno essere samaritano e allo stesso tempo buono? I samaritani erano spregevoli stranieri, eretici ed esclusi. E invece Gesù ci mostra come quello straniero, quel samaritano, diventi il protagonista, l’eroe che salva uno dei figli nativi che non viene soccorso dai suoi connazionali e correligionari ma proprio da uno straniero, un alieno, un samaritano.
Chi è il mio prossimo? Gesù ha cambiato i termini della domanda passando dal dominio dell’obbligo legale (chi merita il mio amore?) a quello del dono (di chi posso essere io il prossimo?). E così lo spregevole samaritano diventa l’esempio morale.
Gesù ci sta mostrando che il popolo che appartiene alla comunità dell’alleanza di Dio deve dimostrare un amore che non si ferma all’amicizia o alla vicinanza, ma un amore che ha un respiro universale e non cerca ricompense.
La funzione delle parabole può essere quella di istruire o quella di creare uno shock. Questa parabola è fatta per scuotere l’immaginazione della gente, per provocare, per sfidare. I criteri usuali di valutazione del valore di una persona vengono sostituiti da quelli di un’attenzione disinteressata al bisogno dell’uomo dovunque lo si incontri.
Siamo venuti oggi qui nel deserto perché è questa la strada verso Gerico; ed è percorsa da molti che cercano di raggiungere la metropoli di Gerusalemme. Siamo venuti qui oggi per farci prossimo e trovare il nostro prossimo in ciascuna delle persone sofferenti che rischiano le loro vite e a volte perdono le loro vite nel deserto.
Papa Francesco ci incoraggia ad andare alle periferie per cercare il nostro prossimo nei luoghi del dolore e del buio. Siamo qui per scoprire la nostra identità di figli di Dio che ci fa a sua volta scoprire chi è il nostro prossimo, chi è il nostro fratello e la nostra sorella.
Come nazione di immigrati dobbiamo provare un senso di identificazione con questi altri migranti che cercano di entrare nel nostro Paese. Gli Stati Uniti sono una nazione di immigrati. Solo i nativi americani qui non sono arrivati da nessun’altra parte. Così la parola di Dio oggi ci ricorda che Dio vuole la giustizia per l’orfano e la vedova e che Dio ama lo straniero, l’estraneo. E ci ricorda che anche noi siamo stati stranieri in Egitto.
A causa della carestia delle patate e dell’oppressione politica la mia gente è venuta qui dall’Irlanda. Migliaia e migliaia morivano di fame. Sulle navi-cimiteri che portavano gli immigrati irlandesi un terzo dei passeggeri morivano di fame. Gli squali seguivano le navi aspettando di divorare i corpi di quelli che venivano «sepolti in mare». Ho il sospetto che solo gli africani che venivano portati schiavi sulle navi abbiano avuto un viaggio peggiore.
Frank McCourt ha scritto un’opera intitolata The Irish and how they got that way. In una delle scene gli immigrati irlandesi ricordano dicendo: «Siamo venuti in America perché pensavamo che le strade fossero lastricate d’oro. Quando siamo arrivati abbiamo scoperto che le strade non solo non eranno lastricate d’oro, ma non erano lastricate affatto; e abbiamo scoperto che noi eravamo quelli che dovevano lastricarle».
Il lavoro duro e i sacrifici di così tanti immigrati è il segreto del successo di questo Paese. Nonostante la xenofobia conclamata di una parte della popolazione, i nostri immigrati contribuiscono poderosamente all’economia e al benessere degli Stati Uniti.
Qui nel deserto dell’Arizona siamo venuti a piangere gli innumerevoli immigrati che rischiano le loro vite nelle mani dei coyote (i trafficanti di uomini ndr) e delle forze della natura per venire negli Stati Uniti. Ogni anno 400 cadaveri vengono ritrovati qui al confine, corpi di uomini, donne e bambini che cercavano di entrare negli Stati Uniti. E questi sono solo i corpi ritrovati. Da quando poi attraversare il confine è diventato più difficile, questa gente ha cominciato a prendersi maggiori rischi e più persone muoiono.
L’anno scorso circa 25 mila bambini, in maggior parte dal Centramerica, sono arrivati negli Stati Uniti senza essere accompagnati da alcun adulto. Decine di migliaia di famiglie sono divise a causa della legislazione migratoria. Più di 10 milioni di immigrati privi di documenti sono esposti allo sfruttamento e alla mancanza di accesso ai servizi umani essenziali e vivono costantemente nella paura. Contribuiscono alla nostra economia con il loro duro lavoro, spesso contribuiscono per miliardi di dollari ogni anno al fondo per la previdenza e ai programmi di assistenza sanitaria di cui non beneficeranno mai. (…)
Il nostro Paese ha tratto beneficio da tanti gruppi che hanno avuto il coraggio e la forza di venire in America. Sono venuti fuggendo da conndizioni terribili e portando con sé il sogno di una vita migliore per i propri figli. Erano alcuni tra i più industriosi, ambiziosi e intraprendenti cittadini dei propri Paesi e hanno portato enormi energie e buona volontà nel loro nuovo Paese. Il loro lavoro duro e i loro sacrifici hanno reso grande questa nazione.
Spesso questi immigrati hannno dovuto fare i conti con il sospetto e la discriminazione. Degli irlandesi si diceva «non hanno bisogno di chiedere»; la nostra etnia e religione ci rendeva indesiderabili. Ma il meglio dell’America non &e
grave; lo spirito bigotto e xenofobo degli "Know Nothings", ma il generoso benvenuto del Nuovo Colosso, la donna poderosa con una Torah nelle mani, la Statua della Libertà, la Madre degli esiliati che proclama al mondo: «Terre antiche, tenetevi pure le vostre ricchezze immagazzinate. Datemi i vostri figli stanchi, poveri, le vostre masse stipate che cercano un posto per respirare, gli avanzi sgraziati delle vostre spiagge brulicanti. Mandatemi loro, i senza casa, scossi dalla tempesta. Sollevo la mia torcia per illuminare loro la porta d’oro» (Emma Lazarus).
Vigiliamo affinché questa torcia continui ad ardere luminosa.