I dogmi dell’autoproprietà che fanno di ogni individuo un “self-made man”di Jason Jones e John Zmirak
La teoria dell'autoproprietà o possesso di noi stessi si collega al principio libertario radicale secondo cui nessuno di noi deve niente a nessuno, a meno che non concordi liberamente di cedere qualcosa a un'altra persona come dono o oggetto di scambio.
In base ai dogmi dell'autoproprietà, teorizzati da autori come Ayn Rand e Murray Rothbard, ognuno di noi è un “self-made man”, un individuo che si fa da sé nella vita, un artefice del proprio destino, che non deve ringraziare nessuno; un individualista che ha conquistato tutto ciò che ha e tutto ciò che è. L'immagine di questo tipo di uomo si riflette nella cultura popolare attraverso opere in cui l'uomo solitario, proscritto, è considerato un eroe perché si rifiuta di lasciarsi intimidire o sedurre dalla folla. Il filosofo Edward Feser ha riassunto così la teoria che soggiace a questa immagine:
"La tesi dell'autoproprietà è la base della filosofia politica di molti libertari. I diritti naturali alla vita, alla libertà e alla proprietà (la cui difesa, secondo il libertario, è l'unica funzione legittima del governo) derivano dall'autoproprietà, in particolare dalla proprietà che ciascuno ha del proprio corpo e delle sue parti, delle proprie capacità e del proprio lavoro, e, per estensione, di tutto ciò che un individuo può acquisire con l'esercizio non coercitivo di questa autoproprietà. In tale prospettiva, il governo non può, legittimamente, interferire nell'uso che un individuo fa del proprio corpo, delle proprie abilità, ecc., nella misura in cui questo uso non viola i diritti degli altri, e anche nel caso in cui questo uso da parte dell'individuo possa essere ritenuto immorale in altre circostanze: ad esempio, se qualcuno decide di prendere delle droghe o di bere notte dopo notte fino a entrare in coma, lo Stato non avrebbe alcun diritto di impedirlo".
Come contropartita, il libertario considera anche che, se lo Stato non ha il diritto di impedire a nessuno di autodistruggersi, non vuole nemmeno avere alcun obbligo di riscattarlo. Le persone che provocano la propria mancanza di impiego o la propria malattia a causa delle loro cattive abitudini devono far fronte da sole alle conseguenze, o al massimo con la carità volontaria di persone individuali. Perfino le persone troppo povere per avere alloggio, alimentazione e assistenza medica, anche se la povertà non è colpa loro, devono solo contare sull'aiuto di volontari del settore privato; lo Stato non dovrebbe occuparsi di nessuna forma di redistribuzione di rendita basata sulla visione della giustizia sociale imposta da chi è al potere.
Questo atteggiamento esercita un grande fascino su molta gente, soprattutto nel nostro contesto politico di socialismo laico galoppante, che ci trascina verso la meta di sinistra dello Stato-balia subumanista. La versione che Murray Rothbard presenta del radicalismo libertario anarco-capitalista ha sedotto un sorprendente numero di credenti pro-vita, il che è dovuto senza dubbio al suo apparente “rigore filosofico” e alla sua contrarietà alle intromissioni dello Stato laico. Consideriamo, però, anche ciò che Rothbard scrive sulla maternità e sulla famiglia:
"Il contesto adeguato per analizzare l'aborto è il diritto assoluto che ogni uomo ha sul possesso di se stesso. Ciò implica immediatamente che ogni donna abbia diritti assoluti sul proprio corpo e su tutto ciò che è dentro di esso, incluso il feto. La maggior parte dei feti è nell'utero materno solo perché la madre lo permette, perché la madre dà il suo consenso liberamente. Ma se la madre decide che non vuole più il feto, questo diventa un 'invasore' parassitario dentro di lei; in questo caso, la madre ha il perfetto diritto di espellere questo invasore dal suo dominio. L'aborto non deve essere visto come l''omicidio' di una persona viva, ma come l'espulsione di un invasore indesiderato dal corpo della madre. Qualunque legge che restringa o proibisca l'aborto è un'invasione dei diritti delle madri”.
L'autoproprietà, o teoria del possesso di se stessi, per come costruita da un impietoso Rothbard, ha altre implicazioni per i diritti e doveri dei genitori, estendendosi molto al di là dell'intimità dell'utero. Rothbard prosegue nello stesso capitolo:
"Applicata ai genitori e ai figli, la nostra teoria significa che i genitori non hanno il diritto di aggredire i propri figli, ma vuol dire anche che i genitori non hanno alcun dovere legale di alimentare, vestire o educare i figli, visto che questi doveri sarebbero azioni positive coercitive, che priverebbero i genitori dei propri diritti. I genitori non possono uccidere direttamente o mutilare il figlio, e la legge fa bene a impedire loro di farlo. Ma i genitori devono avere il diritto legale di non alimentare il figlio, ovvero di permettere che muoia da solo. La legge, quindi, non può obbligare i genitori ad alimentare un figlio né a mantenerlo vivo (ribadendo: che i genitori abbiano un obbligo morale, e non legale, di mantenere vivo il proprio figlio è una questione del tutto diversa). Questa regola ci permette di rispondere a domande pressanti come: i genitori possono permettere che un bambino malformato muoia (ad esempio smettendo di nutrirlo)? La risposta è sì, certamente, ed è una risposta che deriva , a fortiori, dal diritto maggiore di permettere che qualsiasi bambino, malformato o meno, muoia (anche se, come vedremo in seguito, l'esistenza di un libero mercato di bambini in una società libertaria finisce per ridurre al minimo questa 'negligenza')”.
L'autoproprietà, come principio, impedisce così allo Stato di intervenire quando i genitori uccidono i propri figli di fame. Su questo punto, è una tentazione accantonare semplicemente questo concetto in quanto assurdo e concludere che qualunque teoria che non difenda la cellula più fondamentale della società, la famiglia, può essere difficilmente affidabile in questioni superiori e più complicate. Ma la teoria dell'autoproprietà o possesso di se stessi non è del tutto errata. È radicalmente incompleta: è una parte importante della verità, ma, quando viene estrapolata dal suo contesto fondamentale, lascia la stessa scia di sangue lasciata da qualsiasi organo vitale che viene estirpato dal corpo.
La proprietà privata e la sua protezione contro confische o controlli arbitrari sono implicazioni della dignità umana, perché la proprietà è, nella sua essenza, il frutto del nostro lavoro, che deve essere libero. In questo senso, siamo padroni di ciò che facciamo. Ma formuliamo alcune domande incisive su ciò che significa davvero la proprietà, fino a che punto si estende e in che modo è condizionata da ciò che noi stessi riceviamo.
È chiaro che nessun essere umano è realmente “un uomo che si è fatto da solo”. Siamo nati da un padre e da una madre, senza le cui cure saremmo morti rapidamente. Gli esseri umani dipendono dalla protezione costante dei genitori per molto più tempo di qualsiasi altra creatura. La maggior parte degli esseri umani non può sopravvivere da sola né raggiungere l'età adulta. A livello fisico ed emotivo, siamo dipendenti dalla cooperazione degli altri e dalla “partnership” con altri. La nostra stessa coscienza è costituita e formata in pienezza con la mediazione del linguaggio: parole e strutture grammaticali che impariamo dagli altri, che ereditiamo dai defunti. Allo stesso modo, siamo i beneficiari del duro lavoro dei nostri antenati, che hanno creato una società ordinata, capace di difendere i diritti individuali e di creare l'infrastruttura necessaria all'educazione e alla tecnologia. Pensate agli enormi vantaggi, in termini di aspettativa di vita, opportunità, salute e ricchezza, di un cittadino nordamericano o europeo contemporaneo rispetto a un membro perseguitato della tribù nuba o di un brasiliano che vive in una favela. Qualcuno di noi può riconoscersi il merito di queste conquiste? No. Sono doni che abbiamo ricevuto. Senza di essi, non avremmo la conoscenza, le capacità, la libertà o la sicurezza fisica che rendono possibili i nostri sforzi per generare ricchezza. Due persone con talenti simili e con sistemi etici di lavoro paragonabili coglieranno frutti molto diversi se una è nata a New York e l'altra in una comunità aborigena dell'Australia. La discrepanza tra le opportunità offerte a queste due persone dovrebbe mostrarci quanto dobbiamo agli altri e quanto poco di quello che arriviamo ad essere è merito nostro.
Noi non diamo alla luce il nostro corpo, né creiamo noi stessi. Ereditiamo una grande varietà di doni e di opportunità; senza di questo, non avremmo modo di fare buon uso – né alcun uso – di ciò che abbiamo. Se consideriamo questo fatto, vedremo che il nostro possesso del nostro lavoro e della nostra ricchezza non è completo né assoluto. Questa proprietà è condizionata da ciò che dobbiamo ad altri che sono venuti prima di noi. È per questo motivo che ci si aspetta che gli adulti curino i propri genitori anziani. E ancor più che pagare per la cura e per le opportunità che abbiamo ricevuto, ci si aspetta che le paghiamo in anticipo per la prossima generazione, per darle migliori possibilità di prosperare “con i propri sforzi” (che, nuovamente, saranno sforzi “propri” solo fino a un certo punto). Questo debito è più che una verità morale: è un fatto della biologia dei mammiferi, di una razza i cui figli nascono dai corpi di un padre e di una madre e non da uova abbandonate a caso.
Alla luce di queste realtà sociali, biologiche e morali, possiamo vedere chiaramente che non siamo padroni di noi stessi in modo assoluto, esente da qualsiasi onere o dovere. Tutto ciò che abbiamo, tutto ciò che ci differenzia da un marinaio solitario imprigionato su un'isola deserta, lo dobbiamo in grande misura ai nostri genitori (e forse è necessario pagare questo debito in anticipo ai nostri figli) e alla società che ci ha modellati e ci ha fornito condizioni di progresso e prosperità. Il nostro debito più grande è con coloro che ci sono più vicini: i nostri genitori, i nostri figli e i nostri benefattori diretti. Dobbiamo un po' meno alla nostra comunità locale e proporzionalmente meno agli estranei totali, che anche così sono comunque nostri concittadini. Dobbiamo un po' anche alle persone che abitano in Paesi lontani, con le quali interagiamo poco, quasi per niente, tranne che per comprare i frutti del loro lavoro. Dobbiamo comunque loro qualche cosa: questo debito, per i materialisti, può sembrare intangibile o senza senso, ma in tempi di crisi la consapevolezza di quel debito può significare la differenza tra la vita e la morte, la pace e la guerra, la coesistenza o il terrorismo. Abbiamo un debito con qualsiasi essere umano, in virtù della sua partecipazione alla famiglia umana, con la dignità intrinseca che implica questa partecipazione. Dobbiamo agli estranei il riconoscimento del fatto che sono diversi dalle macchine, che la loro umanità è uguale alla nostra e non è intaccata da alcuna differenza di ricchezza, razza o religione. Dobbiamo loro il debito imposto dalla Regola d'Oro: fai agli altri ciò che vorresti venisse fatto a te.
Se è difficile accettare e interiorizzare questa verità, ecco un esercizio mentale che può essere utile: quando guardi un gruppo di rifugiati disperati in televisione e vedi uno di loro che agita una mano per allontanare le mosche dagli occhi, non paragonare quell'individuo a te come sei oggi, a quel “tu” che vive in una situazione di comfort e sicurezza relativi. Ricordati invece che tu e lui siete già stati esattamente identici: piccoli feti, annidati nel corpo di un'altra persona, totalmente dipendenti dalla protezione e dalla buona volontà di quest'altra persona, del tutto incapaci di fare qualsiasi sforzo per conto proprio, per merito proprio, per decisione propria. In quella fase della vita eravate esattamente uguali. Poi pensa a tutte le cose che devono essere accadute nella vita di quell'estraneo e nella tua per portarvi a due situazioni tanto diverse; pensa a quanto poco tutto ciò è dipeso dalle tue decisioni personali, alle pochissime cose che hai fatto realmente per avere una vita molto migliore di quella di quel rifugiato scheletrico e disperato. Questa è la verità fredda, nuda e cruda. E questa verità non è confortevole. È per questo, probabilmente, che ci sforziamo tanto per nasconderla a noi stessi.
[Traduzione a cura di Roberta Sciamplicotti]