Il nome Mosè significa “io l’ho tratto dalle acque”Il nome Mosè – in ebraico Mosheh – significa “io l’ho tratto dalle acque” (cfr. Esodo cap. 2, v.10). In ebraico, i nomi racchiudono in sé il destino di un uomo, la sua missione; nel caso di Mosè, il nome è legato al destino di Israele, che “sarà ugualmente salvato dalle acque”. La missione che Dio ha affidato a ciascuno di noi – nessuno escluso – è iscritta perfino nel nostro nome, fin dai primi anni della nostra vita. Proviamo a frugare nella nostra memoria, quei particolari che già da allora indicavano misteriosamente ciò che siamo adesso o ciò che siamo chiamati ad essere.L’educazione ricevuta a corte (2,10) diede a Mosè la capacità di valorizzare la libertà e la dignità umane. Mosè percepisce le divisioni tra gli ebrei e cerca di mediare, ma viene rifiutato (vv.13-15a). Non si può liberare dalla schiavitù un popolo che ha smarrito il gusto della libertà e del valore dell’unità, sotto il peso della schiavitù.
Tuttavia, si noti la domanda che gli pone l’ebreo che si vede rimproverato da Mosè, mentre sta rissando con un altro ebreo: Chi ti ha costituito capo e giudice su di noi? (Esodo cap. 2, v.14) Mosè ha ricevuto un’educazione tale da renderlo sensibile alle esigenze dei suoi fratelli ebrei; manca, tuttavia, l’incarico ufficiale: “chi ti manda”?
Tra il viaggio di Abramo e quello di suo padre Terach, la grande differenza – se ricordiamo – è la chiamata, l’incarico. Il viaggio di Terach è un’iniziativa privata, quello di Abramo è una risposta ad un appello, ad una voce.
Nel caso di Mosè, agire senza d’impulso – sia pur preparati, sia pur pieni di entusiasmo – senza però aver risposto ad una chiamata interiore od esteriore che sia, può farci correre il rischio di fallire: questo accade a Mosè, che è costretto a fuggire a Madian, per paura di ritorsioni nei suoi confronti.
La dura schiavitù degli ebrei, prima che a Mosè, è ben presente a Dio: gli Israeliti gemettero per la loro schiavitù, alzarono grida di lamento e il loro grido salì a Dio. Allora Dio ascoltò il loro lamento … Dio guardò la condizione degli Israeliti e se ne prese pensiero (Esodo cap. 2, vv. 23-25). Dal pensiero del Dio-amore – e non dall’iniziativa umana – per la sua gente nasce l’iniziativa divina per intervenire efficacemente.
Mosè, intanto, si era rifatto una vita a Madian, aveva trovato perfino una moglie – Zippora, la figlia del sacerdote Ietro – e tutto sembrava ormai orientato verso un’altra direzione. Mosè aveva addirittura intrapreso un mestiere per vivere; proprio allora, Dio lo chiama (leggi Esodo cap. 3,1-6). Proprio nel momento in cui meno se l’aspettava, Dio gli affida l’incarico che mette in moto ufficialmente tutto quello che è stato Mosè fino a quel momento: Ora va’! Io ti mando dal faraone. Fa’ uscire dall’Egitto il mio popolo, gli Israeliti! (Esodo cap. 3, v.10). A differenza di Abramo, modello assoluto della fede, Mosè chiede dei segni e Dio glieli dà. Quando la chiamata arriva, giunge anche la conferma che sei proprio tu l’unica persona adatta a fare quella cosa e non altri! Nessuno al mondo può fare quello che potresti fare tu …
Investito di autorità e superate tutte le difficoltà in ordine all’accettazione della missione, Mosè fa ritorno in Egitto (Esodo cap. 3, v.1 – cap. 4, v. 17). Il primo incontro di Mosè ed Aronne col Faraone è però un fallimento totale (Esodo cap. 5, vv. 1-5). Gli ispettori degli Israeliti si lamentano con Mosè, il quale a sua volta si lamenta con Jahvé (5,19-21.22-23) e pone in dubbio la missione che gli ha affidato.
Questo fallimento di Mosè è ben diverso dal primo, quando ancora era un raffinato ragazzo di corte senza alcuna “investitura ufficiale” da parte di Dio. Il fallimento di Mosè assomiglia molto alle marachelle di Abramo (cfr. Genesi 20) e alle lamentazioni di Geremia (cap. 15 vv. 10 ss.). Abramo, Mosè e Geremia hanno risposto a Dio e perciò hanno già compiuto gran parte di ciò che dovevano fare … lo svolgimento della missione è garantito non da noi, ma dalla costante e continua assistenza di Dio, non-ostante le loro più o meno grandi fragilità.
Mosè, dopo essersi sentito rispondere negativamente dal faraone – non conosco il Signore e neppure lascerò partire Israele (Esodo cap. 5, v. 2) – entra in profonda crisi e si chiede quale sia il senso della sua missione e se Dio veramente gli ha affidato quel compito. In poche parole si lamenta con Dio (Esodo cap. 5, v.22). Dio, però, non si arrabbia – questo non è il suo stile – ma ricorda a Mosè che non è lui ad aver scelto la missione che gli affidato, ma Dio stesso: Ora vedrai cosa sto per fare al faraone con mano potente, li lascerà andare, anzi con mano potente li caccerà dal paese! (Esodo cap. 6, v.1).
Non solo fa questo, ma dà nuove conferme alle nuove obiezioni di Mosè riguardo alla sua missione (leggi Esodo cap. 6, v. 12) : 1. gli israeliti non mi ascolteranno; 2. il faraone non ascolterà; 3. ho la lingua impacciata. Alla prima obiezione – che rivela l’insicurezza di Mosè – risponde la genealogia di Esodo cap. 6, vv. 14-27 che prova una parentela tra Mosè e Aronne e i figli di Giacobbe. Si tratta di una sorta di carta d’identità che prova l’autorevole lignaggio di Mosè. Esodo cap. 7, vv. 1-7 risponde alla seconda e terza obiezione. Mosè avrà autorità assoluta davanti al Faraone (v.1) ed Aronne sarà il suo profeta (v. 2).
Non c’è alcun vero fallimento se si è risposto all’appello di Dio a compiere ciò lui vuole da noi. Dio è sempre pronto a darci nuove conferme, nuovi segni … a condizione che non ci tiriamo indietro!
Mosè, come sappiamo, non entrò nella Terra Promessa, ma la vide da lontano (leggi il passo struggente di Deuteronomio cap. 3, vv. 25-26). Perché? È un ulteriore fallimento, tuttavia non tale da pregiudicare il destino del suo popolo, che entrerà ugualmente nel paese promesso ai padri, sotto la guida di Giosuè.
L’uomo che trasmette il messaggio del Sinai non è in tutto e per tutto simile a Dio. E questo uomo non può essere in tutto e per tutto diverso dai destinatari, né del tutto estraneo dal loro peccato. Qual era il fatto? Leggi Numeri cap. 20, vv. 1 – 11: Mosè aveva ricevuto l’ordine di parlare alla roccia che avrebbe fatto scaturire l’acqua, per l’assenza della quale Israele si era lamentato contro Dio. Mosè, però, non parla alla roccia ma la colpisce col bastone due volte, ossia con una certa rabbia … risposta di Dio: leggi Numeri cap. 20, v. 12.
Mosè, in certo qual modo, è stato contaminato dalla tenace incredulità del popolo. Perché? Perché è un uomo e non è Dio … tuttavia Israele entrerà nella Terra Promessa, anche se non la generazione a cui apparteneva Mosè. Forse Mosè non ha realizzato il suo sogno, ma Dio ha comunque realizzato il proprio sogno di liberare Israele dall’Egitto e di condurlo nella Terra dei Padri: questo basta a Dio … e a Mosè per chiamarlo, anche lui, San Mosè!