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La polemica sui superstipendi porti a un ripensamento del capitalismo

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Roberta Sciamplicotti - Aleteia - pubblicato il 26/03/14
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“Non hanno nulla a che fare con il mercato, ma con il potere di una casta che lo usa a proprio vantaggio”“Le reazioni e i dibattiti attorno all'annuncio della riduzione degli stipendi dei top manager pubblici dicono molto, sebbene su scala nazionale, su una delle grandi malattie del nostro capitalismo e sui suoi paradossi”.

Così l'economista Luigino Bruni commenta le polemiche suscitate dalle affermazioni dell'amministratore delegato di Ferrovie dello Stato, Mauro Moretti, che ha uno stipendio di 850.000 euro annui e ha annunciato che non accetterà alcuna riduzione, possibile conseguenza dei tagli previsti dalle manovre del Governo Renzi.

Per Bruni, “senza ripetere la critiche ormai note (e abusate) ai super-stipendi e ai bonus di uscita dati anche a manager pessimi”, bisognerebbe criticare i compensi dei manager usando le stesse categorie del mercato e della concorrenza da essi stessi evocate ('è il mercato, bellezza')”, perché il comportamento di questi “paladini virtuali delle virtù e dei benefici del capitalismo” si muove “nella direzione esattamente opposta a quella dei meccanismi del mercato e della concorrenza” (pagina99, 25 marzo).

I loro stipendi, osserva Bruni, “sono il frutto dell'uso del potere di una casta internazionale e molto potente, che usa il proprio potere per tenere alte le sue 'quotazioni', e traslare questi loro alti costi sui consumatori o sugli imprenditori”.

Dal punto di vista sostanziale, gli stipendi dei top manager si sono trasformati in “una grave forma di rendita, che ha nulla o troppo poco a che fare con l'equità o con l'efficienza. E ancor meno col merito, che è diventata la nuova parola magica, e vaghissima, in nome della quale si giustificano i superstipendi (almeno di quelli 'bravi')”.

Le rendite, avverte Bruni, stanno tornando a erodere i profitti e i salari e sono frutto dell'anti-mercato. “Il mercato dovrebbe portare all'abbassamento dei prezzi verso i costi. Fare in modo, attraverso la concorrenza, che ci siano più efficienza e più equità. Quindi, se il mercato funzionasse bene, si eliminerebbero le rendite di posizione e i privilegi 'feudali' di varia natura. In realtà, gli stipendi dei top-manager non vengono fissati dal mercato, ma da loro stessi”. “Qui non c'entra nulla il mercato, c'entra il 'potere'” (Radio Vaticana, 25 marzo).

“Dovremmo, allora, approfittare di questo dibattito sugli stipendi dei manager, pubblici e privati, per scavare più in profondità, e far ripartire una stagione critica, sulla natura del nostro capitalismo e sulla dimenticata questione della distribuzione del reddito”, avverte Bruni; “riparlare un po' anche di potere e di democrazia economica, parole eclissate dai nuovi termini, sempre più vaghi, del nuovo capitalismo finanziario. Una buona politica degli stipendi ai manager dovrebbe allora invocare sì, esattamente, il mercato e la concorrenza, ma nella direzione giusta: eliminando le barriere all'entrata create dalla classe-casta stessa, rendendo veramente contendibili le posizioni manageriali, facendo trasparenza nelle carriere e nel reclutamento” (pagina99, 25 marzo).

Moretti ha fatto le sue affermazioni a margine di un convegno a Bologna, spiegando che il suo omologo tedesco prende uno stipendio tre volte superiore al suo: “Siamo delle imprese che stanno sul mercato ed è evidente che sul mercato bisogna avere anche la possibilità di retribuire, non dico alla tedesca e nemmeno all'italiana, ma un minimo per poter fare sì che i manager bravi vengano dove ci sono imprese complicate e dove c'è del rischio ogni giorno da dover prendere” (Il Sussidiario, 21 marzo).

L'impresa per cui lavora, ha spiegato, fattura 10 miliardi di euro all'anno, e dunque non è detto che chi la gestisce debba prendere stipendi ridotti. “Sia negli Stati Uniti che in Germania, sia in Francia che in Italia il Presidente della Repubblica prende molto meno dei manager delle imprese”.

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