C’è molta vita anche nelle persone sofferenti, impariamo da loro
di Maddalena Negri
Gesù muore a 33 anni: di certo, non è vecchio, né bisognose di cure. È, anzi, un uomo, nel fiore degli anni: rigoglioso, robusto e che, probabilmente, non avrà mancato di suscitare chiacchiere per il fatto di essere, a quell’età, ancora celibe, eppure non disdegnare la compagnia delle donne.
Niente di nuovo sotto il sole, potremmo dire, rifacendoci all’Ecclesiaste!
Celibe, senza aver generato figli, senz’aver lasciato quindi una discendenza. Una maledizione, agli occhi di qualsiasi ebreo del suo tempo.
“Con tutta una vita davanti”, diremmo invece noi, ai nostri giorni.
A 12 anni si ha tutta la vita davanti. Anche a 13, magari anche a 40 si è considerati “ancora giovani”.
Già, ma quale vita? In base a cosa sarebbe possibile stabilire quale sarebbe l’età giusta a cui morire?
Quando si muore con la vita “solo dietro le spalle”? Mi incuriosisce quest’espressione, perché – in buona sostanza – presuppone una visione “standard” della vita, in cui si dovrebbe nascere, crescere, fare tot cose, vivere almeno tot anni, in modo da avere almeno tot esperienze da raccontare ai nipotini davanti a qualche cyber-focolare.
Non c’è che dire: visione senza dubbio parecchio massificata e massificante della realtà. Se non vivi a sufficienza, non fai esperienze a sufficienza o sufficientemente “elettrizzanti”, che succede: c’è una penalità?
La verità è che partire da un simile presupposto non è dissimile dal considerare ogni persona come proveniente da un unico stampo, come se fossimo tutte repliche di un’unica forma originaria, variabile solo esteriormente, ma destinata a fare le stesse cose, vivere le stesse esperienze, provare le stesse emozioni, morire nella stessa e auspicabile modalità.
Non è così.
C’è una trama che ci sovrasta e ci connette a uno stesso network, ma c’è anche un disegno, unico e singolare, su ciascuno di noi. Una storia personale e non globalizzata che si serve dei nostri sogni, delle nostre aspettative, delle nostre emozioni, dei nostri sentimenti, delle nostre aspirazioni per tessere tele grandiose, sognanti, favolose, incredibili.
C’è un alone di mistero in tutto ciò, che fa sì che il senso complessivo sfugga alla nostra piena e completa comprensione. Ci domandiamo, giustamente e pervicacemente, perché ci sia il Male, perché colpisca i più deboli e indifesi, perché Dio permetta che siano sottoposti a dure prove creature innocenti come i bambini. Non ce ne diamo pace. Non riusciamo a comprendere e questo ci provoca delusione, sofferenza, talvolta anche ira nei confronti di Dio, se attribuiamo a lui l’origine di ciò.
Ma alla fine, mi domando: è possibile stabilire quando sia giusto morire, sulla base di cosa? Quale sarebbe l’età giusta? È un po’ dome domandarsi quale sia la “massima maturità” raggiungibile dall’uomo, quella dopo la quale chiunque possa definirsi “a posto”, all’acme dell’umanità raggiungibile dalla creatura.
Con l’aggiunta di un problema: anche si potesse stabilire tale “apogeo umano”, è possibile pensare che questo sia univoco, a livello universale, in poche parole: un limite fisso e invalicabile, uguale per tutti?
La morte di Ilaria La Torre è emblematica. Salita alla ribalta a una dozzina d’anni, per aver mostrato il proprio talento canoro in un talent show spagnolo. Uccisa da un cancro che, come ormai abbiamo imparato a sapere, falcidia in modo ancora più micidiale i bambini, a causa della più veloce delle loro giovani cellule, sia quando queste sono sane, sia quando queste sono malate. E questo, per chi è malato di cancro, è la certezza che la vita non sarà lunga, pur vivendo almeno nell’incertezza di non poter stabilire il giorno e l’ora della fine. Aveva fatto in tempo a registrare l puntate di “La Voz Kids”, quest’estate; non erano ancora andate in onda e ora saranno trasmesse ugualmente, nel rispetto delle volontà della famiglia.
Come pensare che la sua vita non abbia avuto e abbia un senso? Certo, l’apparenza ci fa pensare a una disegno lasciato a metà, a un sogno spezzato, a un progetto non concluso, a speranze che ancora fluttuano nell’aria in memoria di lei: i desideri che albergavano nel suo cuore e che lei non ha fatto tempo a realizzare.
Ci vuole tempo a dispiegare le ali, per inseguire i propri sogni: lo ha scoperto, a proprie spese, il gabbiano Johnatahan Livingstone. E, purtroppo, è da constatare che è solo attraverso il dolore, la sofferenza che si raffinano le anime migliori, quelle che hanno lasciato di più al mondo, anche se spesso non sono state capite.
Non tutte le creature sono uguali. Ci sono gli elefanti, maestosi e imponenti, con la corazza a proteggerli dalle intemperie e pochi passi per fare lunghe e faticose traversate. Ma ci sono anche le farfalle, con le ali impalpabili, indifese di fronte al mondo esterno, vulnerabili ad ogni attacco, eppure maestose nei colori, nell’eleganza, nella leggiadria, pur vivendo poche ore di vita.
Essere elefanti o farfalle non è una scelta propriamente libera. A volte, è la vita a decidere per noi.
I percorsi con cui questa scelta avviene sono forse imperscrutabili; quanto meno, contengono sicuramente una buoan dose di mistero che fa sì che non siano del tutto penetrabili dall’uomo.
Tuttavia, restano nell’aria i colori, la sensazione di allegria e il profumo di primavera che portano con sé quesi insetti così apparentemente ininfluenti, forse, ai fini della biosfera, ma capaci, da sola, di trasmettere la voglia di vivere.
Non potrebbe essere già questo motivo di orgoglio per aver vissuto una vita magari breve, ma che abbia saputo essere dono per gli altri, con la propria capacità di colorare la vita propria e altrui, nonostante la malattia?
Per noi altri è difficile guardare a loro, senza commozione: l’uomo è sensibile alla parola morte. Sa che c’è, ma preferirebbe non saperlo. Ne ha paura. È quella parola fine che non perdona, non permette replica (a meno che non ci sia una visione di fede a far da impalcatura e sostegno alla speranza in un Amore che vince anche il Nemico più acerrimo: sì, proprio la morte!). È questo il motivo per cui non riusciamo a trattenere la stizza, l’impotenza, l’incomprensione, che rischiano di sommergere la ragionevole stima che dovrebbe invece pervaderci di fronte a chi riesce ad andare oltre tutte le esperienze negative.
Ci sono persone capaci di fare della propria vita un arcobaleno, nonostante la propria sofferenza.
Invece di estendere a loro la nostra autocommiserazione, sarebbe bello che potessimo ispirarci con sincera stima e umana empatia a chi dalla vita ha avuto “quantitativamente meno” rispetto a quelli che sono i parametri con cui normalmente si misura la vita, ma che, spesso, ha avuto la capacità di sfruttarne al meglio la qualità, riempiendo di Vita la vita!