Sull’elogio di Papa Francesco per i parroci. E sulla tentazione – diffusissima nella Chiesa – di prendere l’autorità un po’ troppo sul seriodi Roberto Beretta
«I preti dell’Italia sono bravi. Se l’Italia ancora è tanto forte non è per noi vescovi, è per i parroci». Così "il solito" Papa Francesco, concludendo la settimana scorsa un incontro col clero romano.
Credo che Bergoglio abbia sostanzialmente ragione: non perché tutti i preti siano bravi, e nemmeno perché tutti i vescovi siano cattivi (del resto le generalizzazioni sono assai poco cristiane), ma in quanto è esperienza comune del cristiano italiano medio aver conosciuto una "base" ecclesiale – comunque estesa si voglia considerare – composta solitamente di ottime persone, motivate, sacrificate, umili, impegnate e un "vertice" - pure esso esteso a piacere – che invece si prende un po’ troppo sul serio e proprio per questo cade spesso nel ridicolo. La Chiesa d’Italia si regge così, sui tanti che sopportano qualunque cosa in nome della pazienza e del buon senso; ed è una reggenza "all’italiana", appunto, in quanto nella Penisola viene replicata in qualunque luogo si esplichi una gerarchia.
"Se è diventato vescovo (prete, cardinale), qualcosa di male l’ha fatto sicuramente": non ricordo quale ecclesiastico l’ha detto, ma una punta di verità l’aforisma – che peraltro potrebbe benissimo essere applicato anche a molti laici con funzioni direttive nella Chiesa – la contiene. Le modalità con cui si accede all’autorità ecclesiastica infatti, almeno in Italia, richiedono troppo spesso l’acquiescenza alle anti-virtù più caratteristiche del clericalismo – l’ambizione (quante volte papa Francesco ha deprecato il carrierismo del clero, in quest’anno di pontificato?), il gregarismo, la simulazione, l’adulazione dei potenti – o anche soltanto gli atteggiamenti più rassicuranti per la tenuta del sistema: fedeltà, prudenza, basso profilo, obbedienza…
D’altra parte mi stupisce sempre notare, nella mia piccola esperienza di giornalista ma pure di cristiano, come taluni sacerdoti che pure sembrano avere un certo spessore spirituale e culturale o addirittura si conquistano fama provenendo dal basso della pastorale o viceversa dagli studi più profondi, spesso – una volta "promossi" proprio in virtù di tale meritoria gavetta e magari anche della relativa esposizione mediatica – diventano monsignori saccenti, opinion leader insopportabili, superiori dispotici, vescovi vanesii. Ricordo ancora l’intervista al presule al quale avevo chiesto, a mo’ d’introduzione, come andava: "Ormai sarebbe ora di avere una diocesi più importante. Non per me: per il bene della Chiesa". E il bello è che poi quel tipo ha avuto davvero quel che cercava…
Sì capirà dunque perché mi reputi vaccinato a qualsiasi "eminenza" ed "eccellenza" e rifiuti di attribuire ammirazione ad ogni frusciar di tonaca. Parafrasando – o estendendo – la frase di Papa Francesco, potrei insomma affermare con altrettanta generica verità che «i cristiani dell’Italia sono bravi. Se l’Italia ancora è tanto forte non è per noi preti, è per i laici». Almeno finchè rimangono laici "normali"…