Dietro l’argomentazione per cui la fede in Dio è irrazionale e quindi illegittimadi Emma Green
L'ateismo è intellettualmente affascinante. Il mese scorso, The New York Times ha pubblicato varie storie sulla mancanza di fede nella sua serie sulla religione. The New Yorker ha pubblicato un articolo sulla storia della mancanza di fede in reazione ai due nuovi libri sul tema pubblicati a febbraio a una settimana di distanza dall'altro. L'autore, Adam Gopnik, conclude così:
“Ciò che i no, qualunque siano i loro numeri, hanno realmente ora è un monopolio sulle forme legittime di conoscenza circa il mondo naturale. Hanno questo monopolio per la stessa ragione per la quale chi fabbrica computer è in vantaggio rispetto ai produttori di sfere di cristallo: i vantaggi di avere una spiegazione reale delle cose e dei processi è lampante”.
È un riassunto perfetto della rivendicazione intellettuale di quanti si propongono di provare che Dio è morto e la religione è falsa: gli atei hanno una conoscenza legittima, i credenti no. È l'ipotesi epistemologica che incombe sulla cosiddetta “guerra culturale” tra le caricature dei liberali senza Dio e dei conservatori attaccati alla Bibbia in America: un gruppo brandisce argomentazioni razionali e una storia intellettuale come atto di accusa verso Dio, mentre gli altri guardano alla tradizione e ai testi come a una difesa contro l'invasione della modernità nel campo della vita religiosa.
Il problema è che la “guerra culturale” è un costrutto falso creato da politici e intellettuali pubblici, di sinistra e di destra. Lo stato della fede nel mondo è molto più grigio, molto più umile e molto meno diviso di quanto affermano gli accademici atei e i politici predicatori. Soprattutto negli Stati Uniti, i conservatori sociali sono spesso invitati dai mezzi di comunicazione per “reificare” e rinfocolare questa divisione culturale: la retorica di eterni fiduciosi della Casa Bianca come Rick Santorum, Sarah Palin e Bobby Jindal rafforza una distinzione basata su “noi” e “loro” tra quanti hanno fede e quanti non ce l'hanno. Conoscere Dio li aiuta a vivere e a legiferare nel modo “giusto”, sostengono.
Anche gli atei che si fanno sentire, però, rafforzano questa contrapposizione “Dio contro senza Dio”, ma l'argomentazione non è altrettanto ovvia. La loro è un'asserzione sottile: i credenti non sono sufficientemente istruiti o attenti per sminuire Dio, e se solo conoscessero meglio le prove razionali metterebbero sicuramente la fede da parte.
A capire come si concretizza questo atteggiamento, giunge in nostro aiuto un nuovo libro, The Age of Atheists, dello storico britannico Peter Watson. Il testo interpreta la famosa dichiarazione del 1882 di Friedrich Nietzsche “Dio è morto” come punto di svolta nella storia intellettuale: queste parole sono state un appello all'azione per tutti gli artisti, scrittori, filosofi e poeti che hanno cercato di capire il mondo in seguito. In 626 pagine, i lettori sono condotti in un vortice lungo gli ultimi 13 decenni del pensiero europeo e americano, toccando figure da Martha Graham e Piet Mondrian a William James e Jürgen Habermas. La versione di Watson della storia intellettuale occidentale non è articolata intorno all'economia o alla politica, o ancora alla dialettica del potere, che è una mossa piuttosto radicale in un campo pieno di marxisti, foucaultiani e hegeliani chiusi. L'autore narra invece la storia per rispondere a una delle domande più fondamentali dell'esistenza umana: cosa c'è oltre a noi? C'è una cosa definita “Dio”?
E questo porta a risultati affascinanti. Per suo merito, Watson include ogni tipo di artisti nel suo tour lungo il pensiero ateo. Apprendiamo che Isadora Duncan, madre della danza moderna, confessò “La seduzione della filosofia di Nietzsche ha rapito il mio essere”. Ci sono racconti su W.B. Yeats che ha partecipato a una seduta spiritica in cui “ha perso il controllo di sé e ha sbattuto la testa sul tavolo” e su Salman Rushdie che è quasi morto in un incidente stradale. I romanzi di Henry James sono decostruiti per rivelare temi religiosi, e al musicista jazz Charlie “Bird” Parker viene attribuito il consiglio della Beat-era di “smettere di pensare!”
Questi aneddoti sono intrecciati ad arte in una narrazione più ampia sull'evoluzione del pensiero secolare nel tempo. L'ateismo non ha necessariamente significato un'unica cosa nella storia, osserva Watson, ma nell'elencare i molti modi in cui la gente si è rapportata alla “morte di Dio”, egli sembra anche implicare che l'ateismo ha interessato tutte le basi intellettuali. Non c'è più alcuna ragione per credere in Dio o negli spiriti o nella magia nera, sembra dire Watson – gli intellettuali del XIX e del XX secolo hanno fatto da sé.
È difficile riassumere la storia dell'ateismo di Watson; dopo tutto, gli sono servite centinaia di pagine e dozzine di pensatori per raccontarlo. Ad ogni modo, è più o meno così. Nietzsche ha scritto della morte di Dio in un periodo in cui molti pensatori stavano iniziando a riconoscere un cambiamento nel modo in cui la cultura occidentale si è collegata alla cristianità, e in Occidente le sue idee hanno preso piede. Nell'America della Guerra Civile, ciò significava l'ascesa dei pensatori “pragmatisti”: persone come Ralph Waldo Emerson, Oliver Wendell Holmes e John Dewey hanno capito che “le idee non sono 'là fuori' in attesa di essere scoperte, ma sono strumenti – come coltelli, forchette e microchips – che la gente inventa per far fronte al mondo”, scrive Watson, citando l'accademico israeliano Steven Aschheim. Questa idea è stata ripresa da un gruppo di europei che includeva Charles Baudelaire, Paul Cézenne ed Edmund Husserl. Il tipo di filosofia di quest'ultimo, definito fenomenologia, ha sottolineato che una piena esperienza di vita “non può essere raggiunta all'improvviso mediante qualche 'episodio' trascendente di tipo religioso o terapeutico, ma è più simile al duro lavoro dell'istruzione”, sostiene Watson.
Poi il mondo ha conosciuto la guerra. La I Guerra Mondiale “aveva certe sfumature nietzschiane, e quel conflitto è stato visto come il test ultimo delle qualità eroiche di una persona”, scrive Watson – in altre parole, la battaglia armata era un test della forza e del potere dell'uomo in un mondo libero da Dio. È seguita la sconsideratezza di Gatsby e dell'era del jazz in un turbinio di nichilismo materialistico, e in filosofia pensatori come Bertrand Russell e Ludwig Wittgenstein hanno chiesto la “verificabilità” di tutti i fatti e del linguaggio (essendo ovviamente Dio non verificabile).
In Germania, il nazismo si è avvicinato a Nietzsche e a scrittori contemporanei come Martin Heidegger. Nel caos che scuoteva l'Europa, Jean Paul Sartre e Albert Camus hanno sviluppato l'esistenzialismo, che Sartre descriveva così:
“L'uomo è libero, ma la sua libertà non assomiglia alla libertà gloriosa dell'Illuminismo; non è più il dono di Dio. Ancora una volta, l'uomo è solo nell'universo, responsabile della sua condizione; apparentemente resta in una condizione modesta, ma è libero di raggiungere le stelle”.
Nell'America postbellica, dice Watson, la psicologia pop e l'autoaiuto hanno iniziato a fornire alle persone dei contesti relativi a come vivere. Ciò era stato previsto mezzo secolo prima negli scritti di Freud, che per Watson è responsabile del “cambiamento dominante nel pensiero dei tempi moderni, che ha visto una comprensione teologica dell'umanità sostituita da una psicologica”. Egli indica Carl Rogers, Abraham Maslow e scrittori famosi come Benjamin Spock come psicologi che hanno dato alla loro arte un nuovo scopo: è diventata un modo per aiutare le persone a trovare valore e significato, presumibilmente in assenza della fede tradizionale. I Beatniks, dal canto loro, hanno abbandonato del tutto la ricerca di significato; volevano che la loro arte fosse ispirata da desiderio, spontaneità e improvvisazione. E poi c'erano gli hippies, con il loro acido e il loro amore libero, tutto nello spirito dell'umanesimo, non della devozione.
La storia degli ultimi decenni è un po' più nebbiosa. Watson scrive della “cultura della terapia” e del rifiuto conseguente, insieme alla ricerca di significato in poesia (Hans-Georg Gadamer) e comunità (Richard Rorty e Ronald Dworkin). Persone come E.O. Wilson, Daniel Dennett e Richard Dawkins hanno dato popolarità al tipo oggi più riconoscibile di ateismo, basato sull'argomentazione per cui l'evoluzione e la biologia confutano l'esistenza di Dio.
Tutto ciò porta alla conclusione di Watson: il credo religioso è semplicemente insufficiente a spiegare la complessità del mondo moderno. Ha portato a violenza e intolleranza, sì, ma più fondamentalmente l'idea di Dio – una lente unificatrice e singolare per comprendere la vita quotidiana – è stata ridimensionata. O, per mescolare le metafore, la gente moderna può scegliere il veleno per uccidere Dio, ma Egli deve morire.
Il problema con l'argomentazione di Watson non è il fatto che manchi di prove – nel suo libro c'è un bel po' di storia. Piuttosto, è che Watson raccoglie aneddoti in un coacervo che punta innegabilmente all'impossibilità di Dio nel mondo moderno, o così afferma lui. Ed è qui che entra in ballo lo snobismo intellettuale: Watson assume che visto che un gruppo di persone intelligenti, rispettate e perspicaci ha pensato e sentito di dover smettere di credere in Dio, chiunque dovrebbe farlo. Visto che la storia intellettuale tende al non credere, anche la storia umana deve farlo.
Ciò è problematico per varie ragioni. Ad esempio, suggerisce che i credenti siano meno riflessivi dei non credenti. Watson racconta storie di famosi pensatori e artisti che hanno lottato per riconciliarsi con un mondo ateo. E sono utili, perché offrono un'idea di come persone dinamiche e creative abbiano cercato di vivere, ma questo non vuol dire che la ricerca di significato e comprensione da parte del credente medio sia meno rigorosa o valida – finisce solo con una conclusione diversa: che Dio esiste. Watson insinua che il pieno impegno nel progetto di essere umani nel mondo moderno porti all'ateismo, e questo semplicemente non è vero.
Sappiamo che non è vero perché la grande maggioranza del mondo crede in Dio o in qualche tipo di potere superiore. In tutto il mondo, il credo e l'osservanza variano molto di regione in regione. È difficile elaborare un quadro globale accurato della fede in Dio o in un “potere superiore”, ma la “metrica” della religiosità aiuta. Secondo il Pew Research Center, nel 2010 solo il 16% della popolazione mondiale non era affiliato a una fede particolare, anche se molte di queste persone credono in Dio o in una divinità spirituale. Più di tre quarti delle persone senza affiliazione religiosa vivono nella zona Asia-Pacifico, con una maggioranza (62%) in Cina. In altre regioni, la percentuale di coloro che affermano di non avere affiliazione religiosa è molto inferiore: 7,7% in America Latina, 3,2% nell'Africa subsahariana, 0,6% in Medio Oriente.
Senza dubbio, Watson non ha scritto per tutto il mondo, riferendosi ai pensatori e agli artisti occidentali, ma anche se ci concentriamo sull'Europa e il Nordamerica la sua argomentazione implicita non è supportata dalle statistiche. Il 18% degli europei non ha affiliazione religiosa, ma anche in questo caso molte di queste persone credono in Dio – in Francia, ad esempio, sono il 30%. E anche se il cristianesimo sta crescendo moltissimo in America Latina e nell'Africa subsahariana, nel 2010 l'Europa ospitava ancora un quarto dei cristiani del mondo.
In America, che i sociologi descrivono spesso come un Paese unico a livello religioso se paragonato al resto del mondo occidentale, la grande maggioranza delle persone ha una fede. Secondo il Pew, l'86% dei Millennials, le persone tra i 18 e i 33 anni, afferma di credere in Dio, e il 94% di quelle dai 34 anni in su sostiene lo stesso. È vero che un gruppo crescente dice di essere “incerto” sulle proprie convinzioni, ed è anche vero che l'affiliazione alle istituzioni religiose formali sta diminuendo, ma in termini di puro credo quelli che si descrivono come atei e agnostici sono una piccola minoranza, appena il 6% della popolazione.
Il mondo occidentale in particolare è probabilmente meno religioso di quanto non fosse 150 anni fa, e la dinamica del credo e dell'osservanza è diventata sicuramente più complessa – il numero crescente di persone non affiliate a una religione specifica è particolarmente interessante. Ma se l'era dell'ateismo è iniziata nel 1882 come afferma Watson, la maggior parte della gente non l'ha ancora colta.
L'era degli atei rimarrà probabilmente confinata a certi circoli intellettuali: il filosofo casuale, il non credente dogmatico, il collezionista di libri da bar. Ma nella misura in cui la sua argomentazione rappresenta una patologia più ampia nelle conversazioni contemporanee sul credo, questo libro conta. La maggior parte delle persone forma le proprie convinzioni e vive la propria vita da qualche parte nel mezzo del cosiddetto “cultural divide” strombazzato da atei e credenti di spicco. Quanto più strombazzano, tanto più il discorso pubblico devia dalla sottile lotta del tentativo della persona media di essere umana.
[Traduzione a cura di Roberta Sciamplicotti]