Femminicidio, infanticidio…ogni giorno nasce una parola nuova per parlare di violenza. Ma serve davvero?
di Maddalena Negri
Femminicidio, infanticidio…ogni giorno nasce una parola nuova per parlare di violenza.
Ma serve davvero? O ci illude soltanto di meglio identificare, categorizzando ogni cosa, senza però mai riversare empatia e umanità nelle tragedie che si susseguono, avidi di dettagli ma poveri di compassione?
In occasione della festa della donna, si sono rincorse le stime, si è invocato allo stillicidio. Purtroppo, è vero che spesso le donne sono vittime di violenza. È pur vero però che – in modo oserei dire sottostimato – sono anche protagoniste di essa.
Proprio lo scorso 8 marzo, due donne (madre e figlia) hanno ucciso un uomo (marito per la prima e padre per la seconda).
Proprio lo scorso 8 marzo, due donne (madre e figlia) hanno ucciso un uomo (marito per la prima e padre per la seconda).
Quello che pare passare ancora una volta in sordina, quasi ne fossimo ormai assuefatti, sono forse le violenze sui minori.
Due storie, su tutte.
Carmine, 11 anni, ucciso in provincia di Cosenza dalla madre con un paio di forbici per vendetta nei confronti del padre (stando alle prime ricostruzioni).
Sidni, Kesi e Simona (3,10 e 13 anni), uccise a Lecco dalla madre di origine albanese.
Nord e Sud, stranieri e italiani, la disperazione non ha ormai più colore né barriere. Si tratta, purtroppo di qualcosa di generalizzato.
Un malessere, diffuso e strisciante, che mina le famiglie sin dalle loro fondamenta.
Un dettaglio colpisce in modo dilaniante: sentire che nessuno riesce a credere a quanto è accaduto, convinto che si trattasse di “persone normali”. Fa riflettere. Fa pensare che il luogo comune che ci siano persone “cattive” sia del tutto errato. Forse non ne esistono affatto. Siamo tutti esposti al male, siamo tutti potenzialmente ladri, prostitute, criminali, assassini. Tutti, nessuno escluso. Compresa chi scrive.
Difficile stabilire se il non esserlo sia dovuto a buona volontà, grazia ricevuta, situazioni ambientali più favorevoli oppure ancora mancanza o scarsità di occasioni sufficientemente propizie per diventarlo.
Nessuno però può ritenersi “al sicuro”. Siamo tutti esposti al male. Ne siamo toccati da vicino, infastidito, come dal fumo nero dei copertoni bruciati in estate, che occludono le vie respiratorie e ci impediscono di respirare a pieni polmoni.
Possiamo soccombere oppure no. La certezza è che la lotta è continua, le occasioni sono sempre tante e soprattutto, la tentazione principe, che apre la strada all’abbandono della via della ragione che, sorella della morale naturale che tutti ci inabita, ci consente di evitare quelle scelte tanto fuorviante da non essere auspicabili per alcun essere umano: la disperazione.
Ragionamenti oltre ogni logica, di cui si fa testimone l’episodio di Lecco: «Le ho uccise per evitare loro un futuro di disperazione». Ed è la disperazione a suggerire un tale epilogo, perché solo quando essa prende il sopravvento sulla fiducia, sulla speranza e sulla logica che si può arrivare a tanto: eliminare una risorsa (com’è ogni Vita), nel – vano!i – tentativo di eliminare il problema di cui ci si era accorti.
Distruggere la propria vita, nella vita dei propri figli. Quanto di più disgregante e dis-umanizzante si possa immaginare. Tanto che, quasi inevitabilmente, dopo l’uccisione dei figli, si provvede (o almeno, si tenta di provvedere!) alla propria, di uccisione. Come guardarsi di nuovo allo specchio, dopo aver compiuto un simile gesto, del resto? Ci si può giustificare? Come riprendere la routine di sempre? È possibile dimenticare un’azione di tale portata?
Sono interrogativi troppo grandi, che rischiano di schiacciare chiunque commetta di queste azioni, ecco perché si tenta di evitare nel modo più assoluto la risposta, eliminando anche se stessi, nell’annichilimento totale del proprio sé, attraverso quello della propria corporeità.
Come non pensare poi al piccolo Carmine? La mamma lo è venuto a prendere a scuola, salvo poi portarlo in un bosco e ucciderlo con un coltello da cucina e una forbice, armi di fronte alle quali il bambino si difese strenuamente, ma invano. Pare che il motivo del folle gesto sia proprio la gelosia, scaturita dalla rivelazione, da parte del marito, di avere una relazione con un’altra donna, dalla quale starebbe aspettando un figlio. Da lì, la reazione di annientare tutto quanto era legato al marito. Figlio compreso.
“Tradito da chi l’ha messo al mondo”. Proprio così! È allucinante pensare hce questo possa anche solo accadere per noi che ne siamo attoniti spettatori. Figuriamoci cosa può essere per un bambino, che guarda ai genitori come a dei modelli. Che si aspetta di esserne protetto, aiutato, soccorso, che si fida di loro come di nessun altro.
Che capovolgimento di prospettive dover anche solo pensare di difendersi da chi ti ha donato la vita, da chi ti ha messo al mondo, amato, coccolato, accudito fino a quel momento. Come non comprendere la difficoltà di reazione? Non deriva solo da una disparità fisica, ma da una incapacità di comprensione “strutturale”: come percepire i genitori un pericolo? È quanto di più innaturale si possa immaginare…. inevitabile trovarsi quindi a fronteggiare uno shock enorme e vincerlo in un tempo che le dinamiche spingono ad essere troppo breve!
Forse saranno i mezzi di comunicazione che amplificano tutto e ci fanno perdere il senso della realtà, ma è davvero preoccupante vedere moltiplicarsi il numero di donne che abdicano al loro ruolo di farsi nido e protezione per il figlio come un dono, in nome di rivendicazioni dettate talvolta dall’orgoglio, dalla volontà di dominio o altro.
Quasi che la possibilità di scegliere, le libertà conquistate dalle donne in tutti questi secoli abbiano avuto un effetto nefasto: spingere verso una mascolinizzazione dei loro aspetti più caratteristici, rinnegandone le loro peculiarità, in quanto considerate segni di debolezza e non risorsa e opportunità legate alla loro profonda alterità.
Sono profondamente convinta che la donna possieda una ricchezza inestimabile, ma che potrà metterla al servizio dell’umanità proprio rimanendo se stessa e riscoprendosi nell’intimo dotate di forze profonde e radicate, ma di tutt’altro genere rispetto a quelle maschili.
Tuttavia, di fronte a queste tragedie, moltiplicare la terminologia serve a poco.
Forse, ci è chiesto innanzitutto, di imparare a vivere la dimensione della com – passione, sospendere per un momento giudizi e pregiudizi e considerare che ci sono dimensioni e dinamiche che ci sono talmente vicine da essere familiari; ci sono tensioni che possono sfociare in tragedia, gelosie che possono diventare odio e vendetta, disperazione che può portare a violenza cieca contro chi amiamo.
La scena del delitto è sempre più vicina di quanto ci aspetteremmo.
La migliore prevenzione credo sia imparare a guardare con gli occhi del cuore, ascoltare i silenzi, le attese, i desideri, provare a farsi prossimi a partire dalle mura domestiche, ascoltare i malumori, le critiche, i rimbrotti.
Ogni campo può dare frutto se coltivato con esperienza, passione, amore e benevolenza.
A volte le virtù più difficili da vivere, che sono in grado di cambiare in meglio la vita nostra e di chi ci sta vicino non sono quelle che conducono a eroiche imprese, ma quella pazienza e perseveranza nel bene, che consentono di prestare attenzione alle piccole cose e che danno la possibilità di notare il sassolino sul sentiero prima che diventi una frana irrefrenabile.