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Il cinema, specchio dei cambiamenti della nostra fede

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Emanuele D'Onofrio - Aleteia - pubblicato il 06/03/14
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In uscita su “Studia Patavina” un focus sulla rappresentazione della religione sul grande schermo nel contesto italiano
Il cinema, per sua natura e perfino per etimologia, è un medium in movimento. Per questo si adatta bene a descrivere le evoluzioni, i progressi e i regressi della nostra società in cammino. E lo stesso riesce a fare nel caso della religione, per le sue istituzioni come per la sua spiritualità, riuscendo a cogliere e a rivelare attraverso le storie che racconta “il movimento” laddove sembra esserci solo immobilità. Per questo motivo Studia patavina, la rivista della Facoltà teologica del Triveneto, ha scelto di “guardare attraverso” il grande schermo ai temi della nostra fede a cui più teniamo. Il focus “La fede e lo schermo. Religione e cinema nel contesto italiano” (in uscita nel numero di aprile e prenotabile dal 15 marzo) si giova di cinque preziosi contributi, tra i quali segnaliamo in particolare quello di mons. Dario Viganò, direttore del Centro Televisivo Vaticano, che propone una panoramica della rappresentazione della fede cristiana nel cinema contemporaneo, e quello di Tommaso Subini, docente di Storia e critica all’Università di Milano, che esplora come la sessualità sia raccontata sul grande schermo. Ci parla dell’iniziativa il suo coordinatore Davide Zordan, docente di Teologia Fondamentale al Cssr di Trento, autore egli stesso di un articolo che tratta degli aspetti teologi nel cinema.

Professor Zordan, come nasce questa iniziativa?

Zordan: Studia Patavina è una rivista che ha sempre una parte “alta”, che ogni volta cerca di sviluppare temi oltre il territorio prettamente teologico e ha l’ambizione di mettersi in rapporto con altre questioni che sono rilevanti per i tempi in cui viviamo. La scelta, che è di novità perché la rivista non si è mai occupata di cinema nella sua lunga storia, è stata quella di dedicare un nucleo tematico al rapporto tra cinema e religione, guardando al contesto italiano. Io mi sono incaricato di coordinare una serie di contributi ed articoli che insieme potessero aiutare ad approfondire la questione di una religione che è molto legata al nostro contesto culturale, sociale e tradizionale, ma che insieme è anche una religione in forte trasformazione, con elementi di novità, di criticità, con una necessità di ripensarsi. È interessante vedere come il cinema può essere uno strumento che aiuta a pensare a questi cambiamenti. Un punto che è stato per noi fondamentale è stato vedere come il cinema, essendo diciamo parte del tempo, con una capacità di leggere le cose nel loro fluire, nel loro trasformarsi – non è come una fotografia fissa, ma ha la capacità di cogliere ciò che muove e cambia – è particolarmente capace di capire i cambiamenti che interessano un contesto come quello religioso, dove si potrebbe avere l’impressione di avere davanti un qualcosa di fisso, perché c’è una storia pesante, c’è una lunga storia alle spalle. E invece soprattutto oggi ci rendiamo conto di come tutto sia costantemente messo in questione, portato a modificarsi. Soprattutto il nostro modo di percepire e vivere la religione cambia costantemente.

Tempo fa la sceneggiatrice americana Barbara Nicolosi ha sostenuto che i “pagani” fanno film religiosi più belli rispetto agli autori cristiani. È d’accordo?

Zordan: Sì, molte volte è proprio così. È una questione molto ampia ed interessante. Uno degli aspetti che abbiamo voluto sottolineare è l’importanza di non lasciarsi interrogare solo dai film incentrati sulla religione. È molto interessante, come lei suggeriva, che effettivamente c’è molta ricerca religiosa, indagine religiosa, oppure temi spirituali – tutto ciò che riguarda la revisione morale, la messa in questione del sé, le grandi sfide anche personali che uno si trova ad affrontare – presenti in film che non hanno nessun contenuto espressamente religioso.
 

Le viene in mente qualche titolo?

Zordan: Se pensiamo ad un film che in questo momento si trova sulle prime pagine di tutti giornali, La grande bellezza di Sorrentino, questo ha una tematica religiosa, con la figura della “santa”, ma al di là di quello c’è tutta una tematica di ricerca e anche di fallimento personale di questa ricerca, che chiama in causa dimensioni anche più profonde su cosa vogliamo fare della nostra vita, su come gestire anche il disagio di un fallimento, di una disillusione che ci abita. Tutto questo non ha nulla di esplicitamente religioso, ma si può definire come esplicitamente esistenziale, legato ad un percorso di ricerca. In questo senso la religione può avere a che fare anche con questa idea della bellezza, di qualcosa di struggente che però è lì, ti chiama a cambiare ma tu non trovi la forza di farlo. Un altro film che mi viene in mente in questo momento è belga e si intitola La quinta stagione. Anche questo non ha nulla di esplicitamente religioso, ma è una riflessione sul rito, sul bisogno di trovare dei capri espiatori, di trovare delle soluzioni di fronte all’impasse dell’esistenza, che è in realtà profondamente religiosa pur senza dirlo in maniera esplicita. Quello che abbiamo voluto mettere in evidenza in questi articoli è che tutto questo dà del materiale di riflessione anche alle scienze religiose, alla teologia, non limitandosi, perché sarebbe un peccato, solo a quei film che esplicitamente hanno un contenuto religioso. E ancor meno quelli che esplicitamente fanno un discorso di tipo apologetico, che vogliono essere film in difesa di una religione o propagandistici.

La figura del prete è stata cruciale nel cinema italiano. Ai tempi del Neorealismo essa era una figura di “sostegno” alla ricostruzione sociale e morale del dopoguerra. E oggi?

Zordan: Per restare al cinema italiano credo che ci siano molti spunti interessanti che si possono cogliere sia di critica della figura del prete, sia per una sua revisione. C’è uno degli articoli, quello di don Dario Viganò, che dice cose interessanti su questo argomento: si parla ad esempio della figura del prete nel penultimo film di Verdone, Io loro e Lara, nel quale il sacerdote è anche un disagiato per certi aspetti, ma riesce ancora a fare del bene, ad essere una presenza. Anche il film di Nanni Moretti, Habemus Papam, è in questo senso una riflessione molto interessante sull’istituzione, sul compito di dover rappresentare una religione, assumendone anche la crisi. Poi è diventato un film premonitore suo malgrado, ma aveva anche una sua forza nel guardare dall’esterno all’essenza dell’istituzione religiosa con rispetto e allo stesso tempo con una capacità di cogliere i punti critici che non sono solo della religione ma della società in cui viviamo. Il problema del riconoscimento dell’autorità, dell’efficacia dell’autorità, questo riguarda tutta la società in cui viviamo, non solo la Chiesa.

In questi due film, i preti sono soprattutto uomini, anche loro esposti alla debolezza sociale del momento?

Zordan: Esatto. Questo è un punto molto forte, e secondo me oggi il cinema italiano riesce ad esprimere attraverso questi e altri film qualcosa di importante. Forse in passato, nel cinema italiano, il prete è stato visto facilmente come una macchietta, o come l’eroe che risolve tutto. Penso a don Camillo, che per certi versi ha fatto la fortuna del cinema italiano anche nel mondo, ma in fondo era quello che si vedeva nel sacerdote. Per certi versi poteva essere rappresentativo di una certa realtà, ma che non era sicuramente in grado di cogliere tante altre complessità.
 

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