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RU486 nei consultori. Renzo Puccetti: “E’ abbandono della donna”

Mujer con píldora

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Emanuele D'Onofrio - Aleteia - pubblicato il 05/03/14
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Secondo il socio fondatore di Scienza & Vita la decisione del Consiglio sanitario della Toscana è un altro passo verso la domiciliazione dell’aborto
Non è la prima volta che la Toscana si distingue come pioniera di decisioni in tema di aborto, e già questo suscita alcune perplessità. È di ieri la decisione del Consiglio Sanitario della regione, unico in Italia, di aprire all’uso della pillola abortiva RU486 fuori dagli ospedali. Il trattamento potrà essere somministrato alle donne anche all’interno dei “poliambulatori”, così li definiva la legge 194 del 1978. Questo vuol dire che i tecnici di questo Consiglio Sanitario non vedono niente in contrario al fatto che il tutto possa avvenire all’interno dei consultori. Questo parere, come ha dichiarato il vicepresidente dell’organo toscano, potrà essere notificato dall’assessore alle Asl anche senza delibera. Nel vespaio di reazioni che questa decisione ha suscitato, si distingue la voce contraria dell’associazione Scienza & Vita, in particolare di quella di uno dei suoi soci fondatori, Renzo Puccetti, specialista in medicina interna e responsabile per l’associazione a Livorno e Pisa, contattato da noi di Aleteia. Inoltre, abbiamo chiesto ad Antonello Vanni, esperto di Bioetica e autore di Lui e l’aborto. Viaggio nel cuore maschile, di commentare quali conseguenze questa decisione possa comportare dal punto di vista del padre.

Dottor Puccetti, che parere ha su questa decisione?

Puccetti: Io non riesco bene a comprendere quale sia l’esigenza di un’iniziativa del genere, nel senso che la possibilità di abortire è già ampiamente utilizzata nella regione Toscana. Tutto sommato non si comprende quale sia, dal punto di vista puramente tecnico, l’esigenza di estendere la somministrazione al di fuori dei siti ospedalieri. Io francamente non la vedo, anche volendomi mettere nella prospettiva di una persona moralmente indifferente all’aborto. Anche compiendo questo sforzo che per me è immane, dal punto di vista sanitario non vedo quale sia il bisogno. Credo che si debbano sempre ricordare alcuni fatti, che sono incontestabili: 1) la mortalità per aborto attraverso la somministrazione di RU486, mifepristone, è più elevata rispetto a quella per aborto chirurgico, a parità gestazionale; 2) le complicanze sono statisticamente ad un livello maggiore; 3) la tollerabilità per la donna è più bassa. Se si prende come indicatore quello del dolore, la donna ha più dolore con l’aborto chimico rispetto a quello chirurgico. Quindi, da questo punto di vista io davvero non riesco a capire.

E da un punto di vista morale?

Puccetti: Dal punto di vista morale ovviamente non cambia niente, nella soppressione del concepito. Quando uno è vittima di un assalto, poi il mezzo con cui la sua vita viene ad essere terminata non è che faccia tutta questa differenza. Quindi io non trovo alcuna giustificazione per questa decisione che sia riconducibile ad un’istanza di tipo sanitario. Non posso non considerare che la Toscana è sempre stata una regione che in qualche modo, riguardo a tutte le istanze volte alla minaccia di quella che è la legge naturale, di quella che è la moralità che almeno io ritengo sia da concepire, beh, è sempre stata in prima fila. Dunque le uniche motivazioni che io riesco a darmi per questa decisione sono di tipo ideologico e non di tipo sanitario.

Questa decisione del Consiglio Sanitario Toscano prelude ad altro?

Puccetti: Io sono un sostenitore della percezione che la RU486 sia sempre stato un cavallo di troia, in qualche modo, per ottenere la domiciliazione dell’aborto, cosa che di fatto poi è avvenuta. La domiciliazione dell’aborto è una tappa fondamentale, per chi lo sostiene, per affermare l’aborto come una procedura non diversa in nulla rispetto alle altre procedure. Se in qualche modo si afferma questo principio, allora diventa abbastanza logico e conseguente legiferare in quei modi che sono coerenti con tutte le altre procedure di tipo sanitario. È proprio lì la differenza di prospettiva, cioè nell’idea che l’aborto non è assolutamente una procedura sanitaria come tutte le altre. Non è come un’estrazione dentale, in cui l’interesse dello Stato a regolamentare si spinge fino a un certo livello. Qui si tratta di un essere vivente che viene soppresso. Quindi è inutile si venga a dire che è un problema solo sanitario. Se fosse così non ci sarebbe stato bisogno di una legge apposita, di pronunciamenti della Corte Costituzionale, ecc. E non sarebbe sicuramente in corso tutto questo dibattito da un punto di vista etico. La mia lettura dunque è che in qualche modo si voglia passare attraverso la tappa dell’ambulatorio, comunque sia una fase extraospedaliera, per poi raggiungere il livello del tutto domiciliare. D’altra parte io ricordo ancora che in una intervista l’ormai ex ministro della sanità Veronesi auspicava la vendita della RU486 nelle farmacie.

Altre regioni seguiranno la via tracciata dalla Toscana?

Puccetti: Certamente la Toscana non si fa mai mancare niente da questo punto di vista. Però in qualche modo mi sembra di intravvedere che ci siano altre realtà locali in cui la prospettiva etica è abbastanza coincidente. Quindi non mi stupirei se si andasse in questa direzione, almeno in quelle che sono le punte della vision abortista. Non c’entra niente a questo punto la sanità. Qui si tratta di volontà politiche che vengono assunte: di fronte alla dittatura della maggioranza in qualche modo, che si può fare? Solo cercare di resistere.

Quali conseguenze ci saranno nell’immediato per le donne?

Puccetti: Mah, guardiamo un po’ ai numeri. Se non vado errato in Toscana sono in servizio 116 (o forse 119) ginecologi non obiettori nelle strutture abilitate ad effettuare gli aborti. Tutto sommato, se tra il personale ginecologico che è in servizio nei consultori pubblici toscani il livello di obiezione di coscienza rimane lo stesso, noi ci dobbiamo aspettare all’incirca una trentina di altri medici – perché se non vado errato l’ultimo dato dava una trentina di medici in servizio nei consultori pubblici – quindi più o meno il livello di obiezione si attesterebbe sui 2/3, al 60% o 65%. Anche lì, dunque, dovremmo aspettarci una trentina di medici che praticano questa attività. Tenga presente, perché le persone spesso non lo sanno, che la procedura di aborto chirurgico ha una durata che va dai 5 ai 6-7 minuti. Con un medico solo che effettua gli aborti si fanno centinaia e centinaia di aborti.

Ma aumentano i rischi per la vita della donna?

Puccetti: Se proprio devo andare a vedere il pelo nell’uovo dal punto di vista sanitario noi possiamo dire questo, se andiamo a vedere il caso di donne morte – ovviamente stiamo parlando di numeri piccoli, che da un lato sono effettivamente piccoli, dall’altro vanno aggiunti anche ad un certo sommerso che c’è nel riportare questa tipologia di statistica – noi ci accorgiamo che tante volte la morte è stata causata da un non tempestivo riconoscimento della gravità della situazione. Faccio un esempio: la donna che muore perché non si riconosce che la gravidanza è extrauterina, muore perché i dolori della gravidanza extrauterina sono molto simili ai dolori indotti dalla procedura di aborto farmacologico. Un altro esempio: la morte che avviene per infezione è una morte in cui sostanzialmente all’inizio la presentazione del quadro clinico è estremamente subdolo, e ce ne possiamo accorgere solo attraverso uno stretto monitoraggio da un punto di vista clinico. Tutte queste cose sono ovviamente più difficili con la domiciliazione dell’aborto. Quindi non mi si venga a dire che t
utto questo lo facciamo nell’interesse della donna. Io ho letto delle cose che francamente mi lasciano basito: qualcuno dice “lo facciamo perché sarebbe meno traumatico”. Ma scusate, che differenza c’è tra una sala d’attesa o l’ambulatorio di un ospedale, e la sala d’attesa o l’ambulatorio di un consultorio? Qualcuno me lo deve spiegare.

Si parla anche di una decisione nell’interesse della privacy. È così?

Puccetti: C’è questo grande movimento per spingere alla privacy. Ma attenzione, c’è una grande confusione tra privacy e abbandono di queste donne. Se si parla con queste donne c’è un altissimo grado di ambivalenza, il che vuol dire che sono indecise su cosa fare. Ed io ho realmente incontrato tante donne che mi hanno detto: “mi sarebbe bastato che qualcuno mi avesse detto di lasciar perdere”, e si sarebbero alzate dal lettino. Allora capisce bene che ora questo diventa impossibile, perché qui si crea una corsia di isolamento, quasi una quarantena abortista. Io non credo che i fautori dell’aborto quando continuano a ripetere di essere a favore della donna poi lo siano veramente.

Professor Vanni, cosa comporta questa decisione dal punto di vista del padre?

Vanni: Dal punto di vista del padre, si va sempre di più verso una direzione in cui l’aborto è consumato come atto privato, in cui la donna può tranquillamente anche non avvertire l’uomo. E mi viene anche da aggiungere che in questo caso l’uomo può perfino non sapere del tutto che la donna è incinta. Questo, che è un tema che tratto nel mio libro, è un grave pericolo, anche perché uno non viene neanche più chiamato alla propria responsabilità. Per dire, il lavoro che stiamo facendo noi è quello di sensibilizzare i padri, di produrre opuscoli da mettere nei consultori. Ma se tutto questo avviene in questo modo così facilitato, deliberato, diventa un tu per tu tra donna e medico, l’uomo è tagliato fuori del tutto.
 

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