I vescovi dell’isola chiedono alla politica meno clientela e autoreferenzialità e più visione e bene comune
«I vescovi siciliani bocciano Crocetta»: è il titolo con cui qualche organo di stampa ha sintetizzato il recente documento della Conferenza episcopale siciliana, intitolato “Considerazioni sull’attuale congiuntura della nostra regione”, sulla situazione economica, sociale e politica della nostra Isola.
E in effetti nel testo pubblicato dai vescovi si denunzia «la mancanza di un virtuoso e tempestivo utilizzo delle risorse dell’Unione Europea, ancora a disposizione della Sicilia», a monte della quale sta «un deficit di programmazione e di prospettiva progettuale, frutto di una logica miope fatta di localismi e frammentazione, priva di ampio respiro e perciò incapace di innescare mutamenti strutturali e di generare autentico e duraturo sviluppo». Né aiuta a risolvere il problema, osserva il documento, «una dirigenza pubblica continuamente delegittimata e resa precaria in funzione della fedeltà politica, più che spronata e responsabilizzata in ragione di un’effettiva professionalità».
«Altrettanto drammatico», continuano i vescovi, «è quanto sta accadendo sul fronte delle politiche sociali e della famiglia. Alle promesse e ai proclami volti a sostenere i tanti poveri della nostra Regione sono seguite scelte assolutamente parziali e insufficienti, se non contraddittorie, che mostrano una grave insensibilità verso il tema delle vecchie e nuove povertà, purtroppo in costante aumento». Così come si critica la «generica estensione dei diversi benefici previsti dalla legislazione regionale a favore della famiglia anche alle coppie di fatto» e il «progressivo depauperamento dell’esperienza di formazione professionale in capo ai Salesiani e ad altre Congregazioni Religiose».
Su un piano diverso, ci si riferisce anche alla «irrisolta vicenda della tanto propagandata riforma delle Province, che finora ha prodotto solo l’abolizione dell’esistente», creando non poche difficoltà ai cittadini, e si chiede al governo regionale di condurla con «minore improvvisazione» e «maggiore senso di responsabilità».
L’indubbia durezza del documento ha dato immediatamente luogo, evidentemente, a facili strumentalizzazioni sia da destra che da sinistra, volte a dimostrare che quella dei vescovi siciliani è una chiara scelta di parte, a fianco degli oppositori dell’attuale governo.
A far dubitare di questa interpretazione politico-partitica, però, può servire la semplice considerazione che la presa di distanza della Chiesa dalla classe politica siciliana ha radici ben anteriori a Crocetta e alla sua formula di governo. Nel documento “Finché non sorga come stella la sua giustizia”, pubblicato il 15 maggio 1996, nel 50° anniversario dello Statuto della Regione Siciliana, i presuli siciliani avevano già denunciato senza perifrasi «una classe politica sempre più avvitata su se stessa, incapace di progettualità, attenta soltanto ad assicurare a sé e al proprio entourage la sopravvivenza», nonché «l’assenza di una pubblica amministrazione che si ponga a servizio dei diritti legislativamente e costituzionalmente garantiti». «Di conseguenza», continuava il documento, «risulta diffusa l’illegalità, i favoritismi sono di regola, il burocratismo sembra ancora l’arma più efficace per esercitare ricatti e vessazioni nei riguardi dei cittadini» (n.3). Anche allora i vescovi deprecavano «una diffusa incompetenza tecnico-dirigenziale» e l’«assenza di una moderna cultura organizzativa e gestionale» (n.6).
Che questi problemi non si siano mai risolti in seguito lo attesta un successivo documento della Conferenza episcopale siciliana, “Amate la giustizia voi che governate sulla terra”, pubblicato il 9 ottobre 2012, alla vigilia delle ultime elezioni regionali (prima, dunque, che Crocetta diventasse governatore), dove si parlava di «una fase di allarmante decadimento culturale, politico, sociale ed economico della Sicilia».
Le critiche all’attuale amministrazione, contenute nel testo del 19 febbraio scorso, pur nella loro inequivocabile fermezza, non possono essere lette, perciò, come un attacco unilateralmente rivolto a una determinata forza politica, meno che mai come un implicito rimpianto di quelle che l’hanno preceduta nel governo dell’Isola. Lo si evince, del resto, dal passaggio in cui si constata amaramente che «la mancanza di un virtuoso e tempestivo utilizzo delle risorse dell’Unione Europea, ancora a disposizione della Sicilia, sembra essere una deprecabile costante delle politiche pubbliche regionali». Per non dire che la ribadita, «fermissima condanna» della mafia comporta un implicito, irrevocabile giudizio sui governi che in passato hanno visto i loro capi processati e condannati per i loro rapporti con questa organizzazione criminale.
Ridurre la denunzia dei vescovi siciliani a una scelta di fazione sarebbe, perciò, un modo di falsarla e neutralizzarla. È l’intera classe dirigente – quella di oggi come già quella di ieri – che viene richiamata alle sue gravissime responsabilità e invitata ad una radicale conversione. Né diverso potrebbe essere, del resto, il punto di vista di pastori, che hanno a cuore non la contingente vicenda delle lotte partitiche, ma la Sicilia, e che per questo non si stancano di sollecitare un sostanziale rinnovamento della politica nella nostra Isola, affinché si renda finalmente capace di rispondere «alle difficoltà di tante famiglie siciliane e alle sofferenze dei più poveri e degli ultimi».