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La resurrezione dei dannati

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Aleteia - pubblicato il 25/02/14
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Ci sarà un giudizio per tutti, un giornodi padre James V. Schall

“Una filosofia che eviti il problema del male – rimprovera un aforisma di Nicholás Gómez Dávila – è una favola per bambini ingenui”. Ma se andiamo a confrontarci con questo famoso “problema” per fugare ogni sospetto di ingenuità, andiamo incontro alla questione dell’appropriata punizione per il male.

Dobbiamo anche capire se ciò che riconosciamo come “bene” sia in realtà “male” o se ciò che definiamo “male” possa essere considerato “bene” o regolamentato verso il bene. Platone ci ha più volte insegnato, attraverso ogni sua opera, che non tutti i mali sono puniti in questo mondo, così come non tutte le buone azioni vengono opportunamente ricompensate. Ne consegue che, se l’anima non fosse immortale, i malvagi di solito riuscirebbero a scamparla. Molte buone azioni invece non verrebbero ripagate. Questa situazione è tollerabile a livello intellettuale? E se non lo fosse, quali potrebbero essere le conseguenze nell’affermare che alla fine tutte le cattive azioni di cui non ci si è pentiti saranno punite? E quale sarà la punizione?

Perché se ci si pente della cattiva azione non si viene puniti? Ovviamente, bisogna collegare chi è punito con l’atto che richiede la punizione. Questa relazione implica che la persona colpevole debba essere libera di fare o non fare quello per cui sarà punita. Se si è semplicemente “obbligati” a fare qualcosa, è ovvio che sia ingiusto essere puniti. Ma la parola “ingiusto” non ha significato in un mondo senza libertà. In un mondo relativista, nulla può essere definito giusto o sbagliato a meno che non siamo noi stessi a metterla in questi termini. Questa posizione rende tutto convenientemente soggettivo. Se ogni cosa che facciamo è giusta perché siamo noi a farla, nessuno può fare niente di sbagliato. Così qualunque punizione, in un mondo di questo tipo, sarà ingiusta – qualsiasi sia l’accezione della parola “ingiusto” in un mondo in cui ogni cosa accade perché doveva accadere.

Nell’interpretazione comune, le differenze tra bene o male, tra ciò che è giusto o ingiusto, non sono soggettive; siamo noi ad inventarle. Queste differenze ci indicano come sono le cose, come dobbiamo essere e come dobbiamo vivere. Dávila lascia intendere che fallire nel considerare le implicazioni del male sia un problema serio che comporta delle conseguenze di cui dovremmo preoccuparci. Dobbiamo “esaminare” le nostre vite alla luce di ciò. Molto spesso, falliamo nel considerare il male e le sue conseguenze perché non vogliamo smettere di fare ciò che è sbagliato immaginando che non pensando al male e alle sue conseguenze, tutto si possa risolvere. Non è così. E questa preoccupazione per qualcosa di male resta nelle nostre anime e non può aiutarci ma solo confonderci, turbarci.

Permettetemi di affrontare questo argomento da un diverso punto di vista: la mia preoccupazione è rivolta soprattutto alla resurrezione dei dannati. Perché la nostra anima non ci abbandona e basta? Perché non muore e scompare? Perché deve essere “resuscitata” assieme al corpo? Alcuni sostengono che l’inferno sia vuoto, e che quindi queste siano domande irrilevanti. Ma questa visione delle cose sembra ignara del preoccupante primato detenuto dal male causato dall’uomo in questo mondo.

Se le nostre cattive azioni non hanno conseguenza alcuna, banalizziamo ogni sforzo morale o di grazia. Se ognuno è semplicemente “salvato”, non importa che cosa fa o in che cosa crede, che differenza fanno le nostre azioni? Ma, per iniziare, voglio far presente che è una buona cosa essere preoccupati per tali questioni che sono apparentemente lontane ed inverosimili. Come appare evidente, non sono né lontane né inverosimili. Senza di loro, non possiamo comprendere appieno cosa siamo.

A proposito della nostra preoccupazione per questi argomenti, il Salmo 37 ci dice “non ambulari in malignantibus” (“non vi affliggete a causa dai maligni”). Leggendo questo brano, sono stato spesso colpito dal consiglio sui “malvagi”; non si mette in dubbio il fatto a tutti evidente che i “malvagi” esistono e che noi siamo in grado di riconoscere il male. Inoltre, il verbo tradotto come “affliggersi” ha un significato molto incisivo in quanto la versione latina dice semplicemente che non dovremmo “camminare tra coloro che compiono azioni malvage”. Sulla Nuova Bibbia Americana troviamo “non siate irritati da coloro che fanno del male”. “Afflitti” dà un senso di preoccupazione che in “irritati” non c’è, ma anche il secondo termine rende bene l’idea. Né dobbiamo “invidiare coloro che fanno del male”. Perché no? “Loro si seccano presto, come l’erba”. Non dobbiamo “affliggerci per l’uomo che si arricchisce, un uomo che fa piani malvagi”. Ci viene detto francamente: “Coloro che fanno del male si estingueranno”. In un modo o nell’altro, la conseguenza delle cattive azioni ci colpirà com’è logico che sia. Non ci aspettiamo niente di meno, anche se i “malvagi” possono restare nei paraggi per un tempo più lungo di quanto non gli sia permesso. E la dichiarazione opposta – “Coloro che fanno cattive azioni saranno benedetti” – sembra alquanto errata. Perché? Perché è uno standard che tutti riconoscono, che sembra essere disponibile per tutti noi. Se le nostre azioni non fanno nessuna differenza nell’immediato o alla fine, non abbiamo alcun terreno in comune sul quale possiamo parlare insieme e vivere insieme.

L’inevitabile implicazione di queste istruzioni è che i “malvagi”, coloro che fanno il “male”, per così dire, “non la passeranno liscia”. Però, noi restiamo “irritati”. Siamo afflitti. Come può essere? Dal dialogo con Glaucone e Adimanto nella Repubblica, veniamo a conoscenza del fatto che gli ingiusti sembrano essere spesso elogiati e ricompensati per le loro azioni chiaramente malvagie. Anche i poeti ci dicono che coloro che fanno del male prosperano mentre i buoni sono perseguitati e uccisi. Cristo dice che più o meno le stesso cose accadono ai profeti. Noi tutti moriamo, da qui il “giudizio”, come detto nel Libro dei Maccabei.

Probabilmente, nel linguaggio moderno non c’è nessuna parola più “odiata” di “giudizio”. Perché è odiata da così tante persone, quando “giudicare” è il vero scopo delle nostre menti? Forse perché il giudizio implica che non abbiamo tutto nelle nostre mani. Noi siamo giudicati tramite alcuni standard che sono impliciti nel nostro essere. La violazione di questi standard comporta delle conseguenze, anche in questo mondo. Ciò che facciamo è rifiutare l’ordine che è stato messo nelle nostre anime e nel nostro essere per il nostro stesso prosperare in nome della nostra autorità. Ci è stato detto che nessun altro “bene”, se non quello ragionevole per la nostra natura, ci avrebbe soddisfatto. Noi sconfiggiamo questa affermazione scegliendo di vivere e governarci come vogliamo, anche quando, o forse specialmente quando, ciò che vogliamo contraddice ciò che una volta era chiamato l’ordine naturale dell’essere umano.

Queste riflessioni hanno ovviamente origine dal Vecchio Testamento. La resurrezione compare nel Nuovo Testamento, sebbene ci siano degli accenni nel Vecchio. Sicuramente, in Platone, abbiamo un fondamento razionale per l’immortalità dell’anima che ha origine dagli sforzi fatti per spiegare perché non possiamo sfuggire alla punizione dei nostri peccati, anche se siamo lodati per questi durante la nostra vita. Nella concezione cattolica della resurrezione, tutti gli esseri umani devono essere riportati alla loro integrità, anima e corpo. Ovviamente, questo risanamento è sia per quelli che salvano la loro anima, sia per quelli che non lo fanno. La prima cosa da notare è che tutte le cose incomplete cercano di completarsi, lo fanno sia coloro che vengono salvati sia i dannati. E’ la persona intera che si salva .

Sentiamo parlare molto del fuoco dell’inferno, però il dolore più grande che possiamo immaginare è quello derivato dal non riuscire a diventare ciò che dovremmo essere attraverso la nostra libertà e la nostra colpa. In questo senso, Dio non ci “punisce” ma ci lascia essere ciò che abbiamo scelto di essere. Alcuni potrebbero dire: Dio non dovrebbe dare a tutti una seconda opportunità? Infatti lo fa: Lui dà a tutti molte opportunità. Se pensiamo alla parabola del ricco Epulone e Lazzaro, ci viene mostrato qualcuno che torna dalla morte per mettere in guardia i viventi di ciò che potrebbe accadere. Cristo dice che questo avvertimento non funziona. Ognuno ha già tutto ciò che gli serve. Una vita è un tempo sufficiente per capire da che parte stare. Coloro che non ci riescono la prima volta, non ci riusciranno neanche la seconda per la stessa ragione.

Benedetto XVI, nell’enciclica Spe Salvi, tratta questo argomento. Coloro che non si pentiranno dei loro gravi crimini non siederanno al grande tavolo del banchetto con gli altri. Il Papa ha fatto notare come la giustizia richieda che l’intera persona (corpo e anima) sia ricompensata o punita per ciò che ha fatto. Questa necessità è una delle ragioni della resurrezione del corpo. La giustizia non potrebbe essere pienamente ottenuta se i dannati fossero non solo riportati in vita ma poi anche fatti vivere al di fuori della loro volontà, una volontà che neanche Dio può mutare. Dio non può obbligare una creatura libera a fare ciò che Dio vuole che lui faccia. Se lo facesse, le creature non sarebbero più libere, non sarebbero più loro stesse. Ad alcuni potrebbe piacere pensare che sia contro la bontà di Dio far risorgere i dannati per affrontare le conseguenze delle loro azioni. Ma il fatto è che se queste conseguenze non vengono affrontate, il mondo non è completo. E il mondo deve essere completo e Dio, nel concederci la nostra somma libertà, concede anche – anzi, comanda – la resurrezione dei dannati.

Perché dovremmo pensare a queste cose, soprattutto nel mondo moderno dove nessuno crede in Dio, nella vita dopo la morte, nella ricompensa eterna, o nelle punizioni? E’ proprio per riaffermare che in questa vita noi facciamo esperienza di ciò che è l’eternità, nella quale scegliamo di continuare a vivere per sempre. Potremmo pensare che le nostre vite non sono importanti o che non importa cosa facciamo o in cosa crediamo. L’insegnamento della resurrezione dei dannati è progettato come un preghiera per ricordarci, per insegnarci, che non possiamo nasconderci dietro ai nostri crimini o alle nostre decisioni.

Al capitolo 2 del Primo Libro di Samuele, leggiamo: “Un Dio onnisciente è il Signore, un Dio che giudica le azioni”. E’ da questo giudizio, basato sulle nostre azioni, che alla fine saliremo tra i beati o saremo gettati tra i dannati. Giudizio divino che è basato sulle nostre decisioni le quali, in cambio, sono libere, basate su come noi decidiamo di vivere in questa vita e per l’eternità. La resurrezione dei dannati è una logica conseguenza della libertà della nostra volontà e del fatto che Dio non può privare della libertà ciò che nasce libero. Dio ci concede la libertà permettendoci di raggiungere da soli la nostra piena realizzazione. Questo è ciò di cui c’è bisogno in un mondo nel quale alle creature libere viene offerta la vita eterna, un mondo nel quale il rifiuto dipende dalla loro volontà. La vita che ne consegue deriva da questa scelta – la vita che noi chiamiamo la resurrezione dei dannati.
 

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