Nel paese elvetico un referendum circa la copertura da parte del sistema sanitario dell’aborto vede la vittoria dei favorevoli, ma il fronte del no triplica i votiRiguardo al referendum svizzero del 9 febbraio scorso, tutti i giornali, i tg e pure i vertici Ue hanno parlato (male) del risultato anti-immigrazione. Ma i referendum erano due, e l’altro riguardava il finanziamento pubblico dell’aborto. Bene, gli svizzeri hanno detto sì a pagare coi soldi di tutti l’aborto di qualcuno. Però la novità è un’altra. In Italia, che si sappia, l’unico a farci caso è stato l’informatissimo vaticanista Sandro Magister nel suo blog «Settimo cielo». Non è la prima volta che la Svizzera si misura col tema. Lo aveva già fatto nel 2002 con analogo risultato finale (anzi, oggi il risultato è ancora più favorevole al mantenimento della legge). Solo che allora i sì furono 352.432, oggi sono 873.603. A Zurigo e Berna sono addirittura triplicati. Si tratta dei cantoni storicamente protestanti e oggi praticamente agnostici.
Questi ultimi, in tutta la Svizzera, superano ormai il 21% della popolazione. E a Basilea gli agnostici sono più della somma di protestanti e cattolici messi insieme. Da notare che le varie Chiese si sono praticamente astenute e la Conferenza episcopale svizzera ha preferito defilarsi. L’unico a prendere di fatto posizione è stato il vescovo di Coira, Vitus Huonder, nettamente antiabortista. I democristiani erano addirittura contrari al referendum, così come la lega delle donne cattoliche (il movimento «Sì alla vita» del Canton Ticino ha seguito le direttive della Conferenza episcopale: nessuna indicazione di voto). Tra i cattolici con qualche responsabilità c’è, sì, chi ha ribadito la sua posizione riguardo all’aborto, ma sul referendum è prevalso l’allineamento alla non-indicazione vescovile. Il vaticanista ticinese Giuseppe Rusconi, segnalato da Magister, nel suo blog «Rossoporpora» del 15 febbraio u.s. ha osservato che le percentuali contrarie all’aborto della mutua sono clamorosamente cresciute malgrado l’impegno a tappeto di tutti i media svizzeri, ostili all’iniziativa referendaria.
Quelli che hanno detto no (cioè, sì, perché la domanda era, al solito, «volete abrogare la norma ecc. ecc.?») hanno seguito il ragionamento dei promotori del referendum: l’aborto non è una «malattia», perciò non si vede perché debba far parte dell’assicurazione obbligatoria contro i malanni. Se negli Usa le procedure referendarie soggiacessero agli stessi meccanismi della Svizzera, l’Obamacare sarebbe molto meno un problema per i vescovi americani, costretti a citare in giudizio ministri, stati e perfino il presidente. Come abbiamo accennato, la Federazione delle chiese protestanti svizzere ha invitato i suoi seguaci a respingere l’iniziativa referendaria. Col solo risultato di contare (e ormai si fa presto) quanti seguaci le sono rimasti. Tra i vescovi cattolici si sono segnalati quelli di San Gallo, Basilea e Friburgo-Losanna-Ginevra, che hanno rimproverato – scrive Rusconi – ai promotori del referendum «un testo riduttivo, troppo pragmatico, suscettibile di creare difficoltà alle donne indigenti che volessero abortire» (il virgolettato è del vaticanista, non dei vescovi suddetti). Sia come sia, tale sollecitudine pastorale nei confronti delle donne povere ci pare faccia il paio coi risultati del sondaggio (in risposta alle domande che il Vaticano aveva diramato ai vari episcopati a proposito dei c.d. sacramenti ai divorziati, per intenderci), rivelatisi smaccatamente progressisti, che tutti i giornali hanno potuto consultare (e diffondere) ben prima dello stesso Vaticano.
Comunque, il referendum del 9 febbraio ha evidenziato come in Svizzera il numero dei contrari all’aborto sia in crescita sensibile, e soprattutto nella Svizzera tedesca. Cioè, la più lontana dalla prospettiva cattolica. Molti, come abbiamo visto, erano ostili all’iniziativa referendaria perché, secondo loro, il testo aveva «posto male» il problema. Però i numeri parlano chiaro e gli svizzeri hanno mostrato di aver perfettamente capito la questione: scrive Rusconi che «i contrari all’aborto (quelli senza se e senza ma) sono aumentati sia in percentuale che in numeri assoluti in tutta la Svizzera» e che «era difficile pensare che in un momento di secolarizzazione spinta come questa si potesse pretendere molto di più (circa un terzo dell’elettorato contro l’aborto)». E conclude: «È lecito invece pensare che, se invece di cercare il pelo nell’uovo a scapito dell’obiettivo concreto che l’iniziativa si prefiggeva, alcuni responsabili avessero agito come il vescovo di Coira, si sarebbe potuto guadagnare qualche punto ulteriore di percentuale (così da arrivare al 36-37%)».
Ma, se i vescovi «di confine» – come quelli svizzeri, olandesi, tedeschi – sbirciassero oltre il muro che li divide (si fa
per dire) dai loro colleghi protestanti, vedrebbero che inseguire il mondo non solo non paga, bensì è votarsi a sicura sparizione. Invece, continuano a cercare di adeguarsi a un «uomo moderno» di sessant’anni fa. Sempre in ritardo di almeno un paio di rivoluzioni, certo clero trova più comodo lottare contro il papa che contro gli anticristi. Facciamocene una ragione. Per finire, torniamo al referendum svizzero. Qualcuno dirà che gli svizzeri, così agnostici, hanno votato in tanti contro l’aborto mutualizzato non per un principio ma per i soldi. Ebbene, non è un principio anche questo? Infatti, perché un cittadino deve essere costretto a finanziare trovate statali a cui è contrario? Volesse il cielo che anche in Italia qualche politico provvidenziale riuscisse a introdurre il sistema referendario «alla svizzera». Ne vedrebbero delle belle la Rai, l’Unar e perfino l’euro. Per cominciare.