Il paese ad un passo dalla frantumazione politica?di Stefano Magni
“Bloody Tuesday”, il sanguinoso martedì. Sarà questo, molto probabilmente, il nome con cui verrà ricordata la terribile notte di Kiev fra il martedì 18 e il mercoledì 19 febbraio 2014, quando la polizia ha attaccato i manifestanti accampati in Piazza dell’Indipendenza (ormai per tutti è il “Maidan”, lo spiazzo) e lo scontro ha lasciato sul terreno 26 morti: 9 poliziotti, 1 giornalista e 16 oppositori.
Per tutta la settimana scorsa si era registrata un’insolita calma e lunedì era stata evacuata la sede del comune di Kiev, occupata dai manifestanti sin dall’inizio della protesta, nell’ultima decade di novembre. I presupposti per la fine della tensione c’erano tutti. Oltre ai manifestanti, anche il presidente Yanukovich aveva lanciato ripetuti segnali distensivi: dopo aver licenziato il governo di Mykola Azarov, ormai insostenibile, aveva concesso l’amnistia ai manifestanti, scarcerato i prigionieri, promesso la fine dell’assedio al Maidan in cambio della sua evacuazione. Non ha voluto neppure prendere in considerazione le proposte più radicali: le sue stesse dimissioni, elezioni anticipate e la scarcerazione della leader dell’opposizione democratica Yulia Tymoshenko. Qualcosa non ha funzionato nel dialogo fra sordi a cui è ridotto il negoziato fra opposizione e governo. Gli oppositori si sono sentiti traditi nel momento in cui Yanukovich ha intimato loro di abbandonare piazza e barricate. Hanno visto i preparativi delle forze dell’ordine, la concentrazione dei Berkut (teste di cuoio), equipaggiati con armi vere. Da giorni si parlava, a torto o a ragione, dell’arrivo di truppe. E i manifestanti amnistiati rimanevano, comunque, o in stato di arresto o sotto sorveglianza. In una situazione simile basta una piccola scintilla per far saltare le polveri. E le polveri sono scoppiate quando la polizia ha iniziato ad avvicinarsi alle barricate, per farle sgombrare. Dai primi scontri si è arrivati alla guerriglia urbana in men che non si dica.
Nella giornata di ieri la capitale ucraina era una città in guerra: scuole chiuse, metropolitana chiusa, interi quartieri isolati e al buio, posti di blocco nelle vie di accesso. Per la prima volta è entrato in azione l’esercito: il ministro della Difesa Anatolyy Hrytsenko ha annunciato il trasferimento di 500 paracadutisti della 25ma Brigata d’Assalto Aereo a Kiev. L’ordine è quello di presidiare basi militari e depositi di armi. L’allarme lanciato dal governo è serio: non solo i manifestanti (ormai insorti) hanno dato fuoco a palazzi istituzionali, come la sede delle camere del lavoro, ma hanno anche iniziato a saccheggiare le caserme, prendendosi (stando alle dichiarazioni governative) almeno 1500 armi da fuoco di tutti i tipi. La Sicurezza di Stato, discendente locale del Kgb, alle 16 dichiara un semi-stato d’assedio: una “campagna contro il terrorismo su scala nazionale”. Due ore dopo, il colpo di scena: il generale Volodymyr Zamana, capo di stato maggiore delle forze armate, viene licenziato in tronco, e senza alcuna spiegazione, dal presidente Yanukovich.
Il generale licenziato è stato sostituito dall’ammiraglio Yuri Ilyin. Considerando che l’esercito non aveva avuto alcun ruolo nella crisi, almeno finora, e dato il momento delicatissimo (intensificarsi dell’azione di polizia, annuncio della campagna anti-terrorismo e arrivo dei paracadutisti) c’è da sospettare la peggiore delle ipotesi: che Zamana abbia rifiutato di rispondere a un ordine troppo duro, un intervento contro i manifestanti a Kiev. Una situazione simile si era verificata nel 2004, quando furono però gli stessi servizi di sicurezza a sconsigliare a Yanukovich (anche allora era presidente, anche se non riconosciuto dai partiti di opposizione) di intervenire con la forza contro i manifestanti della Rivoluzione Arancione. Oggi un intervento appare ancora più improbabile. Un analista militare ucraino, Valentyn Badrak, ritiene che lo sia, perché “Il nerbo dell’esercito è costituito da ragazzi giovani, cresciuti in un’Ucraina indipendente – dunque dimentichi dell’esperienza sovietica – Provengono tutti dalle generazioni più giovani e sono vicini alle aspirazioni del Maidan”. Nel corpo degli ufficiali, gli alti comandi sono costituiti da generali “cresciuti ai tempi dell’Unione Sovietica, disciplinati e pronti a obbedire ad ogni ordine”, ma nei ranghi più bassi vi sono ufficiali che “risentono delle difficoltà finanziarie e sociali” di chi protesta. Con un esercito così diviso e demoralizzato, è difficile che un generale si prenda la responsabilità di un’azione di forza. Senza contare che l’equipaggiamento è “in uno stato pietoso”, a causa dei tagli e della scarsa priorità assegnata da tutti gli ultimi governi alle forze armate. Ieri sera il presidente Yanukovich, forse per prender fiato, forse per lasciare spazio alla diplomazia, ha annunciato una tregua con gli oppositori.
E segnali di sfascio arrivano anche dalle periferie più irrequiete. Il maggior sviluppo arriva, appunto, da Lviv, nell’Ucraina occidentale, epicentro dell’opposizione. “Il regime – si legge nel comunicato pubblicato sul sito del consiglio regionale – ha iniziato ad intraprendere un’azione militare contro il popolo. Decine di persone sono già state uccise a Kiev e altre centinaia sono state ferite. Rispettando il volere del popolo, il Comitato Esecutivo del consiglio regionale di Lviv, la Rada del Popolo, sta assumendo piena responsabilità del destino di questa regione e dei suoi cittadini”. Ora i governi ucraini sono, di fatto, due. Considerando che anche la Russia sta soffiando sull’autonomismo delle regioni dell’Est, più vicine agli interessi di Mosca, si configura un possibile scenario da disunione sovietica. Anche se su scala più ridotta.