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Qual è il ruolo della cioccolata nella storia della Chiesa?

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Roberta Sciamplicotti - Aleteia - pubblicato il 19/02/14
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Un libro svela gli intrecci tra questo alimento e la fedeLa Bibbia, com'è noto, non lesina riferimenti al cibo, dal famoso piatto di lenticchie per cui Esaù cedette la primogenitura al fratello Giacobbe ai vari tipi di focaccia, ma quello che non tutti sanno è che anche la cioccolata ha un suo ruolo nel cattolicesimo.

“La cioccolata cattolica” (Edizioni Dehoniane), del biblista Claudio Balzaretti, vuole svelare quanto questo alimento “ricorra nella liturgia, nei riti e nella dottrina della Chiesa apostolica romana già a partire dalla 'scena originaria' (la mela mangiata nel giardino dell’Eden) fino all’Eucaristia, dall’Ultima cena alle virtù dell’astinenza e del digiuno in taluni periodi dell’anno, retaggio dello 'scontro di civiltà' gastronomiche tra l’abbuffata prediletta dall’aristocrazia cavalleresca e militare (direttamente discendente dal 'modello carnivoro' dei barbari) e gli ordini monastici che predicavano la temperanza (debitori del 'paradigma del pane e dell’olio' della cultura mediterranea greco-romana)” (La Stampa, 18 febbraio).

In particolare, il testo ripercorre la vicenda dell’arrivo della cioccolata sulla tavola degli europei, “nella quale si compendiano molte di queste relazioni speciali tra la teologia e l’alimentazione, e che, pur non avendo rappresentato una vivanda tabù, suscitò una notevole serie di grattacapi dal punto di vista religioso”.

Il digiuno ecclesiastico, regolato con estrema precisione dalle gerarchie cattoliche, prevedeva il principio per cui liquidum non frangit, ovvero la bevanda non valeva, e non andava quindi considerata come una sua interruzione o trasgressione.

Tra la fine del Cinquecento e l'inizio del Seicento esplose una grande diatriba di natura teologica sulla cioccolata, avviata dal medico Juan de Cardenas, autore del primo scritto interamente consacrato al cacao, che ne giustificava, sotto il profilo della salute, il consumo da parte di chi viveva nelle Indie, ma evidenziava anche come contrastasse con il precetto del digiuno a causa della sua componente burrosa – ragione per la quale il dibattito si concentrò sugli ingredienti usati nella preparazione.

La cioccolata divise gli ordini religiosi, con i domenicani “perentoriamente contrari, senza se e senza ma”, e la Compagnia di Gesù “molto più possibilista al riguardo”. Nel 1627 il tema fece ufficialmente il suo ingresso nei libri di etica, nella Teologia morale di uno dei pesi massimi dell’intellettualità gesuitica, il “dottor sottile” padre Antonio Escobar y Mendoza, che “assolse” la cioccolata considerandola pura bevanda se conteneva solo un’oncia di cacao e una e mezza di zucchero sciolte in acqua.

“Ad accompagnare la diffusione della cioccolata dalla Spagna al resto del Vecchio Continente sarà così anche questa vivace discussione, che abbandonerà via via la dimensione teologica per intrecciarsi sempre di più, da un lato, con il mutamento dei paradigmi della medicina (e il tramonto di quella ippocratica, che era profondamente dietetica) e, dall’altro, con la 'questione sociale'
concernente i suoi estimatori”.

Il consumo dei derivati del cacao ancora a metà Settecento era riservato alle élites, tanto da aver suggerito allo storico delle mentalità Wolfgang Schivelbusch di mappare una geopolitica del gusto che vedeva la frattura tra un’Europa della cioccolata (“adorata dall’'inerte e parassitaria' nobiltà di rito cattolico”) e quella del caffè (“simbolo della 'sobria e attiva' borghesia di religione riformata”), ma, col passare del tempo si appropriarono della bevanda al cacao sempre più largamente le rampanti classi medie, “ed essa arriverà infine a deliziare anche il palato del popolo, facendo dimenticare quanto nei secoli precedenti, all’interno della confessione cattolica, si fossero confrontati aspramente un partito pro e uno anti-cioccolata”.

A dimostrazione di quanto la diatriba sia ormai lontana c'è il fatto che oggi uno dei tipi più apprezzati di cioccolata sia quello prodotto dai frati trappisti. A Roma i frati francesi hanno iniziato a produrlo nel 1880.

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