Il taglio del mio intervento sarà il seguente: parlando al confine tra psicologia e pastorale e lasciandomi guidare da alcuni scritti sanfrancescani, mi domanderò quali competenze tipiche dell’adultità relazionale è necessario diventino obiettivi formativi ecclesiali, perché sia possibile una sinodalità effettiva (e non retorica) e una correzione autenticamente fraterna (e non “impossibile” o sfogo di rancori personali).
Interrogandosi sul frate ideale, San Francesco affermava che «sarebbe buon frate minore colui che riunisse in sé la fede di Bernardo, la semplicità e la purità di Leone, la cortesia di Angelo, l’aspetto attraente e il buon senso di Masseo, la mente elevata nella contemplazione di Egidio, la virtuosa incessante orazione di Rufino, la pazienza di Ginepro, la robustezza fisica e spirituale di Giovanni delle Lodi, la carità di Ruggero, la santa inquietudine di Lucido» (FF 1782). Insomma, nella visione sanfrancescana, non esiste un frate ideale, l’ideale è la fraternità; la bellezza da scoprire non è quella individuale di chi compete con gli altri o primeggia sugli altri, ma è la bellezza del cerchio fraterno, in cui ciascuno impara a riconoscere e valorizzare l’altro, coltivando e custodendo l’appartenenza feconda e fedele.
Certamente, la sfida è complessa; basti pensare ad alcune domande al riguardo: è possibile la passione per il cerchio fraterno in una società che ha fatto della libertà individuale, dell’autorealizzazione “giovanile” e dell’emergere il proprio mito fondante? Oppure, venendo più in ambito ecclesiale, e considerando che i problemi, come si suol dire, iniziano sempre dalla testa: è possibile una cultura del cerchio fraterno laddove i preti diocesani non vivono in comune con altri preti (“un male da fuggire” è il pensiero di molti sacerdoti riguardo alla vita comune); laddove, spessissimo, i seminaristi non vedono l’ora di uscire dal seminario; o laddove chi sceglie il presbiterio diocesano lo fa anche, insieme ad altre motivazioni certamente più nobili, per mantenere l’ideale, ammesso o non ammesso, dell’autoreferenzialità, del “poter regnare, senza rotture di scatole, nel proprio orticello”? O è possibile la passione per il cerchio fraterno, laddove anche nella vita religiosa, sembra che la vita fraterna sia diventata per molti la massima penitenza, non nel senso desiderabile di occasione di conversione, ma di male da rimuovere?
In effetti, abbiamo a che fare con una sfida complessa e per affrontarla va posta una premessa di fondo: la necessità della «conversione relazionale». Si tratta di convertirsi dall’individualismo alla cura del cerchio fraterno, si tratta di volere la comunione nella pratica anche quando c’è da pagare un prezzo (sapendo che anche gli altri nel relazionarsi con noi pagano un prezzo). In altri termini, si tratta di riconoscere che vivere insieme, appartenersi, collaborare, continuare a dialogare, incontrarsi con assiduità per confrontarsi, gestire cristianamente le inevitabili ferite interpersonali, è valore in se stesso: la fraternitas come valore in se stesso. Chiaramente non per stare chiusi (giustamente Papa Francesco ci ha ricordato che una chiesa chiusa in se stessa si ammala), ma sapendo che imparare a vivere da fratelli è il cuore del cristianesimo: «da questo vi riconosceranno». Un’immagine molto bella della nostra tradizione ecclesiale al riguardo mi sembra quella del capitolo monastico frequentato con assiduità, anche quando non ci fossero decisioni da prendere, coltivando il piacere di incontrarsi, piacere che si integra con e non si oppone alla fatica della relazione.
2) Lo sviluppo del pensiero nuziale
Tutti i credenti, sposati e celibi, siamo chiamati, per progredire verso la maturità di Cristo, a sviluppare un pensiero di tipo nuziale. Anche i consacrati e le consacrate, infatti, non siamo chiamati (ce lo ha ricordato papa Francesco) a rimanere single tristi o zitelle acide, ma a «sposarci spiritualmente» (non solo con il Signore, ma con la famiglia spirituale cui decidiamo di appartenere e che ci accoglie). Da cosa è caratterizzato il pensiero nuziale? Essenzialmente dalla custodia del senso di appartenenza, dalla capacità di “pensare con” e dalla capacità di collaborare; anzitutto con Dio (siamo chiamati ad essere alleati di Dio e collaboratori di Dio come dice l’apostolo), ma certamente anche tra di noi.
Cosa significa custodire l’appartenenza? Significa non permettere che le inevitabili sofferenze interpersonali ci portino all’isolamento, al fare da soli, senza avere a che fare con altri leaders (potremmo parlare in questo caso di una “patologia” dell’evitamento del legame). O non permettere che le inevitabili sofferenze interpersonali ci portino alla rabbia senza fine, alla critica acida, all’amarezza che non passa mai (potremmo parlare in questo caso di una “patologia” del legame ambivalente).
Mi piace condividere con voi, a questo proposito, una pagina di San Francesco veramente illuminante, la cosidetta lettera a un ministro.
«A frate N… ministro. Il Signore ti benedica! Io ti dico, come posso, per quello che riguarda la tua anima, che quelle cose che ti sono di impedimento nell’amare il Signore Dio, ed ogni persona che ti sarà di ostacolo, siano frati o altri, anche se ti coprissero di battiture, tutto questo devi ritenere come una grazia. E così tu devi volere e non diversamente. E questo tieni in conto di vera obbedienza da parte del Signore Dio e mia per te, perché io fermamente riconosco che questa è vera obbedienza. E ama coloro che agiscono con te in questo modo, e non esigere da loro altro se non ciò che il Signore darà a te. E in questo amali e non pretendere che siano cristiani migliori. E questo sia per te più che stare in un eremo».
San Francesco diagnostica tre casi in cui i credenti sperimentiamo difficoltà ad amare: situazioni che ci sono di impedimento (“in questa situazione non posso amare il Signore, non posso, ad es., pregare”), persone che ci sono di ostacolo (“non posso amare questo fratello con questo carattere”), relazioni cariche di violenza (“non posso amare se sono aggredito verbalmente” o “non posso amare se non sono riconosciuto nelle mie capacità”).
Ebbene, una parte del nostro cuore è portata a considerare le inevitabili sofferenze interpersonali come disgrazie e, possibilmente, come motivo di interruzione della comunione creata da Cristo. San Francesco ci invita, invece (con linguaggio attuale diremmo: in un processo di ristrutturazione cognitivo-corporeo-relazionale) a riconsiderarle come grazia, ossia come via, occasione in cui viaggia il processo di purificazione, illuminazione, guarigione voluto e sostenuto dal Signore. E’ come se San Francesco dicesse al suo frate e a ciascuno di noi: “guarda che non ti fanno ammattire gli altri, ma le pretese che tu hai sugli altri; il problema tuo non è fuori di te, ma dentro di te”.
San Francesco ci consegna un concetto analogo nell’ammonizione XI:
«Al servo di Dio nessuna cosa deve dispiacere eccetto il peccato. E in qualunque modo una persona peccasse e, a motivo di tale peccato, il servo di Dio, non più guidato dalla carità, ne prendesse turbamento ed ira, accumula per sé come un tesoro quella colpa. Quel servo di Dio che non si adira né si turba per alcunché, davvero vive senza nulla di proprio» (FF 160).
«Davvero vive senza nulla di proprio»: l’appartenenza fedele richiede, quindi, un processo di «depauperazione interiore e relazionale», ossia la rinunzia a quella forma di ricchezza che sono le pretese di riconoscimento, affetto, apprezzamento, etc. che ciascuno di noi, inevitabilmente, porta nel rapporto con gli altri. Anche questo fa parte, mi pare, del cammino verso una chiesa povera per i poveri.
Potremmo, allora, dire che le sofferenze interpersonali ci sono consegnate non per fuggirle, ma per sviluppare in noi, al servizio della comunione, quegli aspetti essenziali oggi della capacità di discernimento che sono l’ intelligenza interiore, l’intelligenza relazionale e l’intelligenza spirituale.
Cosa intendiamo per intelligenza interiore? Lasciamoci illuminare ancora da San Francesco attraverso l’ammonizione XIII: «Beati i pacifici perché saranno chiamati figli di Dio. Il servo di Dio non può conoscere quanta pazienza e umiltà abbia in sé finchè gli si dà soddisfazione. Quando invece verrà il tempo in cui quelli che gli dovrebbero dare soddisfazione gli si mettono contro, quanta pazienza e umiltà ha in questo caso, tanta ne ha e non di più» (FF 163). «Conoscere in sé»: l’intelligenza interiore è la capacità di ritornare a se stessi per leggere le parti vulnerabili del nostro cuore evidenziate dalle sofferenze interpersonali; o per leggere i conflitti interni del nostro cuore, illuminati da quelli esterni: ad es., “cosa succede dentro di me se un confratello urla, non riconosce le mie capacità o mi aggredisce, quale mia vulnerabilità viene ad evidenziarsi?”.
L’intelligenza relazionale ha due aspetti. Il primo: approssimarsi al mistero dell’altro volendo apprezzare il mondo interiore altrui e i suoi travagli, anche quando è in conflitto con il nostro. Il secondo: vedere in che modo ci incastriamo in situazioni di dipendenza reciproca. Ovvero, ad es., “cosa ancora non vedo o non capisco delle reazioni del mio prossimo (primo aspetto dell’intelligenza relazionale); “in che modo il mio sentirmi inferiore spinge l’altro a farmi la predica, o in che modo il mio sentirmi superiore spinge l’altro ad allontanarsi da me o a covare rabbia nei miei confronti? (secondo aspetto)”.
L’intelligenza spirituale ha a che fare con la capacità di neutralizzare i pensieri istintivi del nostro cuore per assumere progressivamente i pensieri di Cristo. E’ frutto insomma di ciò che i padri del deserto chiamavano metodo antirretico. Così, ad es., se l’invidia mi porta a pensare “devo fargliela pagare”, assumere il pensiero di Cristo significa, ad es., ricordare: «portate i pesi gli uni degli altri», «sta’ attento all’animale accovacciato alla tua porta», etc.
Chiaramente, distinguendo tra intelligenza interiore, relazionale e spirituale, non vogliamo opporre, ma semplicemente chiarire i diversi aspetti di un’unica intelligenza riflessiva che valorizza le situazioni di sofferenza, crisi e conflitto al fine della crescita in Cristo.
Che cosa significa, invece, pensare con e progettare con? Significare avere fiducia nel cerchio fraterno (non solo passione per) e realizzare l’invito dell’apostolo: «gareggiate nello stimarvi a vicenda». Mentre il pensiero autocentrato ritiene: “la mia idea è la migliore, l’importante è fare a modo mio, gli altri mi sono di ostacolo, etc.”, la fiducia nel cerchio fraterno porta a pensare che ciascuno coglie un pezzo di verità che è prezioso e che merita di essere valorizzato; per questo è necessario stimare ciascuno, anzi gareggiare nella stima reciproca. Un amore privo di stima, infatti, è paternalista o maternalista, mentre un amore ricco di stima ci porta ad apprendere da ciascuno, a cercare il pensiero dell’altro, a volere affrontare la complicazione della complessità dovuta al confronto come via ineludibile al bene comune.
Tutto questo richiede di fare i conti con una necessità (oltre alla conversione relazionale di cui trattavamo sopra): il superamento della tentazione tipica di chi è leader (dentro e fuori la comunità credente), ossia quella di identificarsi con il proprio ruolo. Ascoltiamo al riguardo un’altra ammonizione sanfrancescana, liberante:
«Beato il servo che non si ritiene migliore quando viene lodato ed esaltato dagli uomini, di quando è ritenuto vile, semplice e spregevole, poiché quanto l’uomo vale davanti a Dio, tanto vale e non di più. (…) E beato quel servo che non viene posto in alto di sua volontà e sempre desidera mettersi sotto i piedi degli altri» (FF 169).
A questo livello, va anzitutto riconosciuto che non è facile collaborare tra leaders vicini, è più facile collaborare un leader e dei gregari o dei leaders lontani; tanto per intenderci, spesso, può essere più facile per un parroco avere a che fare con i parrocchiani (con tutte le difficoltà che ci possono essere) che con un altro parroco o con il vice parroco (e viceversa). O può essere più facile per un teologo “aperto” dialogare con un intellettuale non credente, e meno facile dialogare con un collega che la pensa diversamente e con cui si condivide la vita in facoltà teologica.
Sto dicendo che siamo formati per essere leaders e che in questo vi sono dei rischi impliciti. Dei più forti di tali rischi ha parlato diffusamente il Signore Gesù nella polemica con alcuni farisei del suo tempo, i quali vivevano problematiche che toccano i “chierici” e i “praticanti” di ogni tempo: la brama di gloria, di potere e il carrierismo («tutte le loro opere le fanno per essere ammirati dagli uomini»), il senso di superiorità e di autosufficienza («ti ringrazio che non sono come gli altri uomini»), l’ipocrisia e la mancanza di disponibilità a mettersi in discussione («puliscono l’esterno del bicchiere, ma all’interno sono pieni di rapina e intemperanza»), la mancanza di empatia («divorano le case delle vedove»), il formalismo, il legalismo e l’invidia («sapeva bene infatti che glielo avevano consegnato per invidia»).
Da quale radice nascono i rischi relazionali tipici di chi è leader? Dall’identificarsi solo con alcune parti del proprio cuore: quella desiderosa di governare, quella che ha voglia di prendersi cura, quella che cerca il piacere di competere, vincere e primeggiare, incensando queste parti di noi e lasciando nell’ombra altre parti che pure hanno bisogno di respirare e di vivere: l’affidarsi ad un altro, il lasciare che un altro decida, il piacere di valorizzare il pensiero altrui, il piacere di collaborare, il piacere di amare, etc.
Insomma, si tratta di ridare aria e spazio a parti di noi che supplicano per avere cittadinanza. Nel suo ultimo libro autobiografico (L’amore, la sfida il destino, Einaudi), Eugenio Scalfari rivela una cosa interessante: Narciso l’ha salvato dallo strapotere di Eros, ha impedito all’Io di finire in balia degli eventi e in preda a Tristitia; ebbene, riconosciuto questo, è anche vero che abbiamo bisogno di tanto amore (ricevuto e dato) per essere poi salvati da Narciso, al fine di coltivare e custodire l’attenzione all’altro e di evitare il ripiegamento su di sè. In altri termini, l’autonomia psicologica, obiettivo evolutivo necessario, deve essere al servizio della capacità di interdipendenza e poi della consegna fedele di sé, obiettivi evolutivi più elevati.
Anche qui ci guarisce il cerchio fraterno e la ricerca dell’amore nel cerchio fraterno. Un esempio: è forse male che ognuno di noi voglia stare sotto i riflettori, dobbiamo reprimere l’emergere della nostra soggettività, o almeno nascondere tale desiderio? No, oggi in tempi di valorizzazione della soggettività, possiamo dire che ognuno di noi ha diritto alla sua parte di luce, l’importante è ricordarsi che nel cerchio fraterno anche gli altri vogliono luce, ognuno ne ha diritto e tutti dobbiamo imparare l’arte del sostenerci insieme.
Per concludere, riguardo a questo secondo punto, vorrei ora toccare un altro tasto: parlare di pensiero nuziale ci porta alla necessità del confronto uomo-donna nella chiesa. I maschi maturiamo grazie al piacere e alla fatica di confrontarci con il “cervello” femminile e viceversa; il processo di umanizzazione richiede questo. Perché l’elogio del genio femminile non divenga retorica, è necessario che in ogni organismo, anche di governo, formazione e cura, siano garantiti la presenza e il contributo femminile. Tanto per fare un esempio: nei seminari non sarebbe importante la presenza di formatrici, o basta che vi siano donne a preparare in cucina?