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Piccoli imprenditori suicidi: il silenzioso dramma del nostro tempo

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Emanuele D'Onofrio - Aleteia - pubblicato il 12/02/14
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Ogni giorno nuovi casi ci raccontano che questa tragedia tutta italiana, nonostante giornali e TV se ne occupino a singhiozzo, non si è fermata.
Come onde di un mare in tempesta, in questo periodo le notizie di una crisi che continua si scontrano nei media con notizie spinte dalla corrente opposta, che vuole l’Italia ormai avviata sul cammino della rinascita economica. È tempo di ripresa, si sente dire in giro, ma i numeri della crisi non sembrano accorgersene. Soprattutto quelli più drammatici. Sui giornali e nelle TV questo genere di notizia appare, se appare, sempre più nascosta, ma ancora oggi i dati ci dicono di molti imprenditori, artigiani e disoccupati spinti a togliersi la vita all’arrivo di una cartella esattoriale. Solo ieri, ben sei. Ce lo racconta in quest’intervista resa ad Aleteia Simona Pedrazzini, imprenditrice (della SER.GE.MA, che si occupa di progettazione, realizzazione e manutenzione di impianti in dustriali) in difficoltà e autrice del gruppo di Facebook ‘Piccoli imprenditori e i suicidi di Stato’. Di seguito leggerete una seconda intervista ad Aleteia di Salvatore Federico, Segretario della FILCA-Cisl del Venero e fondatore dell’Associazione Speranzaallavoro insieme a diverse figlie di imprenditori che si sono tolti la vita.

Com’è nata l’idea del tuo gruppo di Facebook?

Pedrazzini: Nel 2011 sentivo notizie di imprenditori che si suicidavano, trattate un po’ a spot sui media. Siccome stavo vivendo – come ora purtroppo – un momento di forte crisi mi sono chiesta se quelli potessero essere considerati fatti veramente privati o ci fosse qualcosa di più. Infatti vivevo le stesse angosce loro, e quel pensiero era venuto anche a me. E mi sono convinta che questi gesti non fossero dovuti solo a depressione o a crisi d’identità, ma che ci fosse qualcosa di molto più forte fuori di noi, che era questo tzunami che c’è poi venuto addosso con la crisi economica. Considera che fino al settembre 2011 ci dicevano che la crisi non c’era in Italia, e mentre tutti se ne andavano al mare, al ristorante o in montagna, io non potevo neanche andarmi a mangiare una pizza. Ho creato questa pagina su Facebook, perché era il social network più immediato: è stata una richiesta d’aiuto, che ho tentato di condividere. Purtroppo, direi, questa pagina, e l’omonimo gruppo che ho creato insieme alla pagina, hanno avuto paradossalmente un grande successo: oggi siamo quasi 5.000.

Che effetto ti ha fatto trovare tante persone nella tua stessa condizione?

Pedrazzini: Mi ha aiutato moltissimo, perché ho capito di non essere sola, abbiamo scoperto di avere tutti lo stesso problema, e che la causa era fuori di noi. Questa consapevolezza ha dato me e a tutti gli iscritti al blog la forza per andare avanti, perché la cosa più brutta che possa accadere ad un essere umano è sentirsi solo. La solitudine ti porta a compiere gesti estremi. Il suicidio è dettato dalla vergogna di trovarsi in una certa situazione, ma quando tu comprendi che la causa è al di fuori di te, allora ti viene comunque la forza di andare avanti. Ancora oggi leggiamo di suicidi ogni giorno – solo ieri ce ne sono stati sei – sempre determinati dall’indifferenza del sistema e anche dalla strafottenza. Vedi sempre più infatti che nei media e nei giornali non ne parla nessuno. Noi non siamo più esseri umani, noi siamo un numero di cartella esattoriale.

Che responsabilità ha Equitalia in tutto questo?

Pedrazzini: Equitalia purtroppo è una delle cause principali di questi suicidi. Io capisco i funzionari di Equitalia che devono svolgere il loro lavoro, ma credo anche che di fronte a degli ordini impartiti sbagliati, una persona che si trova di fronte un essere umano deve avere anche il coraggio di non ubbidire, anche se sono procedure stabilite. Io ieri ho vissuto proprio un’esperienza in questo senso: dovevo portare un assegno circolare entro le ore 13, c’era il dubbio che questo assegno non riuscissi a portarlo in tempo, e la funzionaria di Equitalia con cui ho parlato, oltre ad avermi trattato in modo poco gentile, mi ha detto che loro hanno le loro procedure e che se non fossi stata lì entro le 13 avrebbero proceduto ad eseguirle. Questo non può essere: l’ho portato, poi, questo assegno, però ho vissuto una giornata da incubo. Io credo sia in atto una moderna Shoa, e che non ne parli nessuno è la cosa che fa più male. Non siamo macchine da soldi, ma siamo persone.

Perché i media sono così indifferenti a questa tragedia?

Pedrazzini: Innanzitutto perché i media ricevono i soldi dai poteri forti. La nostra categoria, ma io ci metto dentro anche i commercianti, gli autonomi, i precari, i disoccupati, gli artigiani, siamo tutti vittime della crisi, ma questa è una cosa che non si deve sapere. Parlano di ripresa: ma dove? Dove? Quando vedi sei suicidi al giorno, dov’è la ripresa? Vogliono farti credere che ci sia ma in realtà non c’è. Noi piccoli non abbiamo nessuna corporazione dietro a difenderci.

Ma chi può avere interesse a distruggere la piccola imprenditoria?

Pedrazzini: Probabilmente chi ci comprerà per un tozzo di pane, perché noi abbiamo il Know-how che altri non hanno. Ci prenderanno le nostre conoscenze, la nostra storia che ha 2000 anni. Non siamo i cinesi, che hanno una lunghissima storia ma sono cresciuti nella schiavitù; noi italiani siamo la culla del diritto, abbiamo avuto geni e artisti, questo lascia un segno nel nostro di DNA. Il made in Italy si fonda su questo: oggi non abbiamo che le nostre mani e le nostre idee da dare in garanzia, ma alle banche non basta.

Qual è la tua storia di imprenditrice?

Pedrazzini: L’azienda è nata da mio padre. Mancato lui, ora siamo io e mio fratello che combattiamo contro i mulini a vento. Il credito bancario è venuto meno. Non abbiamo più possibilità di anticipo, di sconto delle fatture dei lavori che facciamo. Paradossalmente siamo pieni di lavoro, però abbiamo pochissima liquidità, se non quella che ci arriva dai pagamenti delle fatture, che sono sempre in ritardo per cui si va in ritardo anche con le commesse. È un gatto che si morde la coda. Resistiamo perché abbiamo grande preparazione e lavoriamo in un settore di nicchia, però chiaramente dobbiamo far fronte anche ai debiti che abbiamo contratto non avendo soldi per pagare tasse, contributi e quantaltro. Sono mesi che io e mio fratello non prendiamo lo stipendio: abbiamo sempre agevolato il personale senza prenderlo noi.

Cosa impedisce l’esplodere di una protesta eclatante?

Pedrazzini: La paura. Si convive con la paura del postino, del telefono, del citofono dell’ufficiale giudiziario. Ti possono arrivare in qualunque momento con ordini di accesso, possono pignorarti tutto, metterti la casa all’asta. È vero che ora c’è questa normativa per cui Equitalia non può più pignorarti la prima casa, ma lo possono fare le banche. E chi non ce la fa e si toglie la vita non è un debole, è uno che non ce la fa più a sopportare la paura e la vergogna di tornare a casa e guardare in faccia la moglie e i figli. Anche perché è difficile che un padre di famiglia comunichi a moglie e figli questi problemi, tende a volerli cancellare quando arriva a casa. Ma questo è un errore, perché non condividere le cose con chi si ama induce all’isolamento totale.

Ti aspetti un cambiamento, di che genere?

Io sono entrata nel movimento 9 dicembre, speravo in questa protesta. Ora leggo che questo movimento è “sotto la protezione” del Vaticano. Si sono rifugiati nella Basilica di S. Maria Maggiore a Roma, perché il sindaco Marino non ha concesso nessuno spazio. Io credo che il Papa dovrebbe intervenire, con una voce forte, a chiare lettere. Il fatto che si siano rifugiati nella Basilica, e dormono per terra la dice lunga. Perché la politica non ci aiuta, la corruzione è dappertutto, e noi siamo l’ultima ruota del carro, solo che siamo quelli che muoiono.

Che cos’è Speranzaallavoro?

Federico: Speranzaallavoro nasce due anni fa, con le prime vittime dell’indifferenza, gente che chiudeva le proprie aziende e persone che restavano a casa. Il 15 ottobre del 2011 dal distretto del Trevigiano, una delle zone più importanti dal punto di vista industriale, abbiamo lanciato questa campagna contro l’indifferenza nei confronti del lavoro. Abbiamo presentato una pergamena a Zaia, governatore del Veneto, con sette metri di carta pieni di firme e alcune proposte che ovviamente non sono state accolte. In seguito, insieme ad alcuni familiari di vittime della crisi abbiamo costituito Speranzaallavoro, proprio per praticare una solidarietà nei confronti delle persone che si sentivano lasciate sole, vittime dell’ingiustizia di non essere pagate da un Comune, Provincia o Stato per un lavoro svolto.

Quali sono le vostre iniziative?

Federico: Abbiamo aperto un numero verde e fatto una convenzione con l’Ordine degli Psicologi, nel giro di neanche un mese hanno aderito alla Convenzione oltre 300 psicologi del Veneto. Ma al numero verde a tutt’oggi arrivano telefonate anche molte che cercano il lavoro: visto che l’ufficio di collocamento ormai non colloca più del 3% di persone, abbiamo costituito Amico Lavoro, per far incontrare domanda ed offerta in tutte le provincie del Veneto. Diamo anche sostegno, ad esempio, nell’insegnare a mettere insieme un curriculum. Non promettiamo lavoro a tutti, ma quantomeno le persone che vengono da noi si sentono meno sole. Abbiamo fatto accordi e Convenzioni con diverse Caritas del Nord Est: con tutti i limiti dell’individualismo veneto, stiamo cercando di creare una rete della solidarietà. Abbiamo dato vita anche a tante iniziative nelle scuole.

Che genere di telefonate ricevete?

Federico: gli psicologi che lavorano con noi mi raccontano di persone che chiamano – finora abbiamo ricevuto circa 1000 chiamate – stanno venti minuti al telefono e poi quando gli si chiede “cosa posso fare per Lei?” rispondono “niente, chiamerò di nuovo”. La spiegazione è che ci sono problemi talmente grandi di solitudine nel nostro mondo di comunicazione globalizzata, che loro si accontentano di una persona che sta a sentirli. Questa nostra associazione è un osservatorio straordinario: ci accorgiamo che le famiglie sono veramente il centro di questa crisi. Mi hanno raccontato di un padre, in Veneto, che aveva un figlio ingegnere che aveva perso il lavoro, per questo aveva divorziato e loro l’avevano accolto in casa. Lui si era chiuso in sé stesso e picchiava la madre perché gli desse i soldi per giocare. Sono storie drammatiche, sulle quali non c’è una vera attenzione. Anche in Veneto. Ci vantiamo tanto del territorio, ma la politica locale non ha dato segnali per aiutare le persone. Ha solo aperto un numero verde a cui dà risposte psichiatriche alle persone, dovrebbe dare risposte politiche. Noi chiediamo alla regione almeno di coordinare le operazioni delle associazioni di supporto e di solidarietà: le Caritas per esempio fanno un lavoro incredibile, che spesso non si conosce. A volte mi chiedo, coloro che si sono uccisi, sapevano che c’era un mondo di solidarietà che avrebbe potuto aiutarli? 

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