Analisi del 2013 per capire dove sta andando l’ItaliaUn anno fa eravamo in piena campagna elettorale, mentre si stava chiudendo la parabola del Governo “tecnico” guidato da Mario Monti. Alla fine di febbraio i risultati delle urne avrebbero prodotto uno sconquasso inatteso del quadro politico. Molte cose sono cambiate in questi 12 mesi, per cui la distanza che ci separa da quella fase pare molto più grande. Tuttavia, la situazione politica continua a essere traballante come di consueto, la crisi continua a “mordere” gli italiani, specie con il dramma della disoccupazione e dei suicidi di imprenditori che non riescono a far fronte ai loro debiti, mentre le riforme sono ancora da realizzare; tutto questo legittima l’impressione opposta, cioè che in fondo non sia cambiato molto.
Vale quindi la pena ripercorrere con uno sguardo più calmo gli eventi del 2013 per cercare di rintracciarne le coordinate fondamentali, non per ricavarne vaticini sull’esito delle dinamiche in corso, ma per mettere a fuoco le responsabilità che siamo invitati ad assumerci, come cittadini e come credenti.
Un anno in tre tappe
Confrontare la situazione di oggi e quella del febbraio 2013 ci restituisce la percezione di una dinamica fatta di accelerazioni vorticose e momenti di stallo; in ogni caso ci conferma che i processi di rinnovamento politico richiedono tempo. All’interno di questi 12 mesi ci sembra di poter distinguere ben tre fasi salienti.
a) Lo choc e la paralisi
La prima fase racchiude i momenti teatralmente drammatici che vanno dalle elezioni del 24-25 febbraio 2013 (cfr il nostro editoriale «Quale responsabilità di fronte alle larghe intese?» in Aggiornamenti Sociali, 06/07 [2013] 445-452) all’insediamento del Governo Letta, il 28 aprile, passando per la rielezione a presidente della Repubblica di Giorgio Napolitano (20 aprile).
Dopo l’esperienza del Governo “tecnico”, il ritorno alle urne sembrava ripristinare l’ordinaria dinamica democratica e le previsioni erano di una vittoria della coalizione di centro-sinistra guidata da Pierluigi Bersani. L’esito del voto smentisce le previsioni, facendo emergere la suddivisione dell’elettorato in tre blocchi di dimensioni sostanzialmente analoghe (tra il 25 e il 30% dei suffragi): centro-sinistra (attorno al PD), centro-destra (attorno al PdL) e la novità del M5S. Solo le bizzarrie ormai certificate come antidemocratiche del famigerato “Porcellum” consegnano una solida maggioranza al centro-sinistra alla Camera, mentre al Senato è necessario un accordo fra almeno due dei tre aggregati maggiori.
La situazione di stallo peggiora dopo il fallimento del mandato esplorativo conferito all’on. Bersani, che il 28 marzo rinuncia all’incarico, mentre il Paese in crisi non può permettersi di restare senza un Governo nel pieno delle proprie funzioni. Così il Presidente della Repubblica annuncia di voler cercare soluzioni alternative, incaricando due gruppi di “saggi” di tracciare alcune linee fondamentali per rimettere in piedi l’Italia. L’atto conclusivo dell’avvitamento si consuma con la “bruciatura” in rapida successione di tutti i candidati alla Presidenza della Repubblica proposti dal centro-sinistra: il 20 aprile i leader dei maggiori schieramenti (M5S escluso) incontrano separatamente Napolitano per chiedergli di accettare la rielezione per senso di responsabilità e scongiurare la paralisi.
b) Le “larghe intese”: un’innaturale sospensione
Nasce in questo quadro il Governo Letta, con i voti delle forze che avevano sostenuto la rielezione di Napolitano (PD, PdL e Scelta civica), producendo la frantumazione degli schieramenti di centro-destra e centro-sinistra rispetto alla competizione elettorale e, soprattutto, l’inedito (per la storia italiana) fenomeno delle “larghe intese”. Si tratta di una soluzione probabilmente inevitabile, che ha il merito di sbloccare il gioco politico, ma che risulta tutto sommato “contro natura” e per questo, come dimostreranno gli eventi, incapace di garantire stabilità ed efficacia all’azione di governo.
In queste fasi concitate bisogna riconoscere a Napolitano di aver saputo esercitare con creatività il ruolo di presidente della Repubblica, assumendosi l’onere di evitare il tracollo del sistema. A distanza di tempo però cogliamo in quegli avvenimenti anche una forte rottura istituzionale, che legittima a parlare di fine della Seconda Repubblica, inabissatasi in seguito a un risultato elettorale estraneo allo schema bipolare su cui si reggeva e per la necessità di trovare un accordo fra i due schieramenti che si erano opposti e reciprocamente delegittimati (e non solo alternati) nel ventennio precedente.
I mesi successivi si possono forse interpretare come pausa necessaria al sistema per metabolizzare lo choc elettorale e trovare una nuova collocazione. Dietro una facciata di concordia, però, non mancano schermaglie, veti incrociati, ricatti e prove di forza. Ogni giorno la tenuta del Governo viene messa in dubbio e le spinte in direzioni opposte obbligano non di rado a rimandare le decisioni più controverse o politicamente di bandiera (ad esempio in merito all’IMU). Un ulteriore fattore di instabilità matura all’inizio di agosto, quando la Corte di cassazione conferma la condanna di Silvio Berlusconi per frode fiscale, con l’affannosa ricerca di una soluzione politica ai suoi guai giudiziari, gli annunci di dimissioni di ministri e parlamentari del PdL, ecc.
c) Un turbine autunnale
Nel tardo autunno per molti versi si “volta pagina”. A metà novembre, a seguito dell’impossibilità di evitare la decadenza dalla carica di senatore, Silvio Berlusconi decide di congelare il Pdl per “riaprire” Forza Italia e soprattutto di ritirare l’appoggio al Governo Letta; ma il partito si spacca, in quanto un gruppo di parlamentari, guidati dal segretario Angelino Alfano, dà vita al Nuovo centrodestra (NCD), confermando la partecipazione e il sostegno al Governo. L’8 dicembre Matteo Renzi vince le primarie del PD, diventando segretario del partito con il 67,8% dei voti. Il giorno prima Matteo Salvini era stato eletto segretario federale della Lega con l’82% dei voti, contro il 18% del leader storico Umberto Bossi. Assumono così il loro ruolo gli attuali protagonisti della scena politica e dei titoli dei giornali.
A suggellare questa fase, il 4 dicembre la Corte costituzionale decreta l’illegittimità di due degli elementi cardine della legge elettorale (il premio di maggioranza e le liste bloccate), marcando così la fine della Seconda Repubblica: per molti versi, infatti, il “Porcellum” – voluto dal centro-destra e mai riformato dal centro-sinistra – rappresentava uno dei simboli di quel bipolarismo personalizzato e conflittuale che l’ha contraddistinta e che oggi le motivazioni della sentenza ci dicono costituire una ferita del corretto svolgimento della democrazia.
Girare pagina è per molti versi un risultato importante: apre la possibilità di qualcosa di nuovo, ma non lo garantisce. Dipende da quale storia sarà scritta sulla pagina bianca che abbiamo di fronte.
I dolori del parto della Terza Repubblica
Nel rapporto pubblicato a fine 2013 il CENSIS narra di un’Italia «sciapa, infelice», che cerca riparo nella «reinfetazione», un termine del linguaggio psicanalitico che indica la pulsione a ritornare feto rinchiuso nell’utero. Secondo il CENSIS tutti i soggetti politici, i rappresentanti, le forze sociali, vivono «in stato di sospensione nelle responsabilità del Presidente della Repubblica», vogliosi, ma incapaci di «tornare a respirare». Questa condizione «riduce la liberazione delle energie vitali. Implica il sottrarsi alle proprie responsabilità dei soggetti». A qualche settimana di distanza possiamo chiederci: siamo davvero rintanati in una rassicurante «condizione fetale» o stiamo vivendo i dolori e le gioie di un parto?
a) Il ruolo di Napolitano
Il presidente Napolitano ha giocato un ruolo fondamentale di stabilizzatore, nel momento in cui ciò che c’era prima (la Seconda Repubblica) non esiste più e il nuovo (la Terza) ancora non c’è, favorito probabilmente dal fatto di essere un uomo della Prima Repubblica, portatore quindi di una necessaria continuità istituzionale. Quanto più lo scenario andrà ricomponendosi e modellandosi, tanto più il suo ruolo e la sua stessa figura appariranno “fuori contesto”, legate nella loro stessa origine (la rielezione dello scorso aprile) al momento in cui per certi versi si è toccato il fondo della paralisi del sistema. Egli stesso non fa mistero dell’intenzione di abbandonare la carica ben prima della fine del settennato: resta da capire quando se ne presenterà l’occasione, tenendo presenti il vincolo del semestre italiano di presidenza della UE (che si apre il 1° luglio) e presumibilmente l’opportunità politica che il suo successore sia eletto da un Parlamento che non porti la “tara” di derivare da una legge elettorale anticostituzionale. In questo tempo la sua saggezza lo aiuterà a non rimanere ancorato alla prospettiva emergenziale della democrazia italiana e a uscire dalla modalità “protettiva”. Da “anestesista-rianimatore” sarà auspicabilmente chiamato a diventare “ostetrico”: i processi che si sono messi in moto in questi mesi non sono scevri da ambiguità, ma perlomeno le domande che suscitano sono vitali.
b) Il cambio generazionale
L’attuale parlamento è il più giovane della Repubblica (45 anni l’età media alla Camera e 53 anni al Senato) e ha il maggior numero di donne (32% alla Camera e 30% al Senato): questo dato, inizialmente forse sottostimato, è sia indice sia motore di un cambio generazionale in gran parte dei partiti.
I primi giovani a farsi notare sono stati quelli del M5S, che pure portano in sé l’enigma del ruolo di Grillo e Casaleggio e soprattutto di una novità proclamata ma che fatica a incarnarsi. Lo provano le tensioni da cui i gruppi parlamentari sono percorsi fin dall’inizio, le difficoltà nelle consultazioni elettorali locali, le smentite da parte della base (pensiamo all’esito del referendum sul reato di clandestinità) e le ambiguità della democrazia “virtuale”; essa apre opportunità di partecipazione, ma al tempo stesso condensa e schiaccia l’insieme di istituzioni intermedie che contribuiscono a formare una vera e propria vita politica (partiti, associazioni, sindacati e attori della società civile), riducendola spesso a un anonimo dibattito su Internet, in cui la maggiore libertà di dire le cose si associa a una minore assunzione di responsabilità nel farle. Certo è stato il successo del M5S a sparigliare le carte del bipolarismo dell’“era Porcellum” e la sua presenza ha accelerato le doglie del parto, ma il comprensibile rifiuto della vecchia politica su basi morali stenta a trovare il modo di diventare proposta costruttiva e feconda. Davvero è fondata la diffidenza per cui ogni contatto con l’altro, quale che esso sia e quale ne sia la ragione, diviene contaminazione? E, di conseguenza, davvero si può partecipare alla democrazia senza accettare di avere a che fare con il pluralismo delle opinioni e la necessità di passare attraverso la mediazione?
Rapidamente i quarantenni assumono posizioni di responsabilità anche fuori dal M5S: Letta, Alfano, Renzi (ancora più giovani i componenti della sua segreteria), Civati, Salvini. «Il nostro Paese quest’anno ha compiuto una svolta generazionale senza precedenti nella storia repubblicana italiana. Credo che l’unico precedente sia quello del dopoguerra», ha detto Enrico Letta nella conferenza stampa di fine anno. L’effetto sorpresa va probabilmente mitigato con la constatazione che in questo modo la classe politica italiana non fa che adeguarsi agli standard internazionali (ad esempio sono quarantenni i leader dei tre partiti britannici; Obama è diventato presidente degli USA a 47 anni; in Spagna Aznar e Zapatero hanno assunto la carica di Primo ministro ben prima di compiere 50 anni, ecc.) e con la considerazione che tutti hanno comunque alle spalle una esperienza politica ventennale o quasi. Essere giovani non garantisce a priori il monopolio dell’innovazione (papa Francesco non è giovane, ad esempio!), né di fare meglio delle generazioni precedenti, ma certamente con l’età cambia l’orizzonte delle decisioni e il contesto ideologico da cui si parte. Significa piuttosto incarnare una promessa: «Noi siamo – per usare ancora le parole di Letta – la nuova generazione che vivrà in modo diverso il modo di fare gioco di squadra». Quali e quanti cambiamenti sono necessari per fare squadra in modo diverso, partendo da un immaginario collettivo pesantemente segnato dalla personalizzazione e dalla spettacolarizzazione del confronto politico dell’ultimo ventennio? E in che modo e in che tempi deve essere preparata la generazione successiva, così che il prossimo ricambio non avvenga fra altri vent’anni?
c) La gestione del potere e le sue conseguenze
Pur nell’invarianza della compagine governativa, il turbine autunnale ne ha radicalmente cambiato la natura politica: da esecutivo di larghe intese si è trasformato in un Governo di sinistra-centro, nel quale il PD rappresenta – per dirla con Renzi – l’azionista di maggioranza e l’area più o meno centrista (Scelta civica in apparente deflagrazione, UDC e NCD) svolge il ruolo di comprimario. In questo scenario, in forza della centralità nella topografia parlamentare appena acquisita, il PD si candida a essere un “partito di sistema”, cardine senza il quale non si reggerebbero le istituzioni. Questa posizione, certamente interessante per realizzare il proprio programma, lo espone però al rischio di avvitarsi sulla gestione del potere e di trasformarsi in un ceto burocratico-politico senza idee e senza progetti, diviso in correnti ferocemente in lotta, la cui principale attività diviene la spartizione dei posti e delle risorse. Al di là delle dichiarazioni, non mancano segnali che questa deriva possa materializzarsi. Altrettanto delicata è la questione dello stile con cui si stabiliscono i rapporti con le altre forze politiche, di maggiornanza o di opposizione. Riusciranno Renzi, Letta e la nuova dirigenza a scongiurare il rischio? E, nel campo un tempo avverso e ora alleato, Alfano riuscirà a coagulare un soggetto politico in grado di sottrarci al populismo che ha segnato il centro-destra italiano durante la Seconda Repubblica? Pare un passaggio necessario per uscire da bipolarismi malati. E, infine, quale durata temporale è destinata ad avere la parabola grillina?
Il vero rischio però – trasversale a tutti gli schieramenti – è che non si colmi lo scollamento siderale tra politica e società in cui la Seconda Repubblica è naufragata, e che tutte queste dinamiche continuino ad andare in scena sul palco di un teatro la cui platea è sempre più vuota o disinteressata. Il clima culturale che privilegia l’interesse individuale rispetto al bene comune, la sfiducia accumulata per anni che non sparisce in pochi mesi, l’eredità delle ferite al corretto processo democratico sancito dalla Costituzione restano ostacoli sul cammino del rinnovamento.
Qualche speranza comunque emerge dai dati dell’edizione 2013 del rapporto Gli italiani e lo Stato, diffusi da Demos, <www.demos.it> il 30 dicembre 2013, che abbozzano un quadro dello “stato d’animo politico” del Paese. Essi mostrano che da una parte prosegue il calo, per non dire il crollo, della fiducia dei cittadini verso le istituzioni in qualche modo politiche: l’indice costruito sulla base del numero di coloro che dichiarano di avere molta o moltissima fiducia in Comune, Regione, Stato, UE, Presidente della Repubblica, Parlamento e partiti scende a 24 (rispetto a 28 del 2012 e a 41 del 2005). La partecipazione politica, nelle sue forme nuove ma anche in quelle tradizionali, è però aumentata ed è in costante crescita dal 2007: il corrispondente indice passa da 44 a 52 tra il 2012 e il 2013 (era 42 nel 2007), mentre quello della partecipazione sociale raggiunge 62 (era 54 nel 2007).
La gioia del Vangelo nella politica italiana
In questa situazione non è infrequente sentir dire: «Ci vorrebbe papa Francesco anche in politica». Affermazioni come queste ci parlano da un lato dell’entusiasmo che circonda la figura di papa Bergoglio, certificato anche dai sondaggi: tra il 2012 e il 2013 la fiducia degli italiani nella Chiesa secondo il rapporto Demos aumenta di 10 punti! Dall’altro ci consegnano il desiderio di un cambiamento radicale dello scenario politico e, più in sordina, la voglia di tornare a entusiasmarsi anche per la politica. Rischiano anche di contenere attese messianiche di un leader a cui affidare tutte le responsabilità, tra l’altro eludendo le irriducibili differenze tra la governance della Chiesa e quella dello Stato (e quindi tra le rispettive leadership), anche solo per la diversa possibilità di ricorrere all’uso della forza o di emanare norme con validità erga omnes in un certo territorio.
Ai nostri fini, le invocazioni di un papa Francesco per la politica italiana contengono uno stimolo interessante: se più che sulla sua figura concentriamo l’attenzione su quello che dice, scopriamo che alcuni spunti della recente esortazione apostolica Evangelii gaudium (cfr il nostro editoriale sul numero precedente) si rivelano pertinenti alla situazione italiana e in questa fase possono aiutare i cattolici – e non solo – a vivere il loro ruolo e il loro impegno politico.
Una precisazione è d’obbligo: la Evangelii gaudium non è certamente stata scritta avendo in mente la possibilità di incidere sulla politica italiana: questa è probabilmente l’ultima delle preoccupazioni del Pontefice argentino. Proprio per questo può fornire una autentica ispirazione, a condizione di leggerla a partire dalla nostra situazione e di lasciarci interrogare da quanto essa propone. In fondo non è che la corretta operazione ermeneutica necessaria a incarnare nei diversi contesti concreti i principi e le indicazioni della dottrina sociale, sapendo che la sua fecondità passa anche dal fatto che più di una interpretazione è possibile, senza che alcuna possa pretendere il monopolio: si tratta piuttosto di farle entrare in dialogo.
Allo scopo di favorire questo esercizio, immediatamente dopo queste pagine riproduciamo il paragrafo III del capitolo 4 dell’esortazione, intitolato «Il bene comune e la pace sociale» (nn. 217-237). Le pagine di questo editoriale non vogliono essere altro che una ricapitolazione degli elementi del contesto in cui collocarci per la lettura del testo di papa Francesco, e l’esposizione di alcuni tra i molti stimoli che è possibile ricavarne. Ciascuno è invitato a trovare quelli che risultano fonte di maggiore ispirazione per il rinnovamento del proprio impegno, individuale e associato.
Da tempo si invoca una nuova generazione di politici cattolici e una rinnovata presenza dei cattolici in politica. Anche questo anelito, in fondo, rimaneva “prigioniero” del contesto politico ed ecclesiale in cui si collocava: il tempo trascorso da “Todi” (16-17 ottobre 2011, cfr Aggiornamenti Sociali, 2 [2012] 100-116) non è molto di più di quello che ci separa dal Governo “tecnico” e dalle scorse elezioni, ma la distanza politica ed ecclesiale è enorme. Oggi infatti, nella Chiesa di papa Francesco, è evidente che non basta che la generazione sia nuova: occorre che sia portatrice di un nuovo stile. Questo interpella tutti i cattolici italiani rispetto alla modalità con cui entrano in rapporto con la cosa pubblica e la politica e al contributo che essi possono dare per l’evoluzione del Paese, a partire ovviamente dai non pochi nuovi leader dichiaratamente cattolici (Letta, Renzi e Alfano, solo per citare i tre più in vista).
Se in passato il modello del “cattolico adulto” invocato da Romano Prodi era stato messo alla berlina, con papa Francesco facciamo un passo ancora più avanti: tutta la Chiesa è chiamata a essere adulta, cioè capace di assumere la propria responsabilità di fronte al mondo e di non farsi spaventare da varietà e pluralismo, per incamminarsi verso le periferie della storia e giocarsi al servizio di chi soffre e del bene di tutti. Questo è essere cattolici, politici, cittadini della Terza Repubblica!
In questa chiave proviamo a esplicitare qui due piste di lettura dell’Evangelii gaudium nel contesto dell’Italia di oggi. In primo luogo è chiaro che il Papa spinge non verso una posizione moderata, ma verso atteggiamenti, scelte e quindi anche politiche autenticamente profetiche; per rendersene conto basta leggere il n. 218: «Sarebbe […] una falsa pace quella che servisse come scusa per giustificare un’organizzazione sociale che metta a tacere o tranquillizzi i più poveri, in modo che quelli che godono dei maggiori benefici possano mantenere il loro stile di vita senza scosse». Ugualmente l’equità nella distribuzione del reddito, l’inclusione sociale dei poveri e i diritti umani non possono essere sacrificati alla «tranquillità di alcuni che non vogliono rinunciare ai loro privilegi». Nel nostro contesto, quindi, sarà corretto rimandare le elezioni fino a quando un aumento dell’incertezza politica nuocerebbe a chi è in difficoltà e a chi sta cercando di riattivare dei processi produttivi, e non fino a quando risulta funzionale alla stabilizzazione dei giochi di potere tra i partiti o al loro interno. Anche i progetti di riforma e le alleanze politiche devono avere di mira la realtà della disoccupazione e della fatica degli italiani e non la garanzia delle posizioni di potere. Sulla base di queste parole ci aspettiamo dai “giovani” della Terza Repubblica la capacità di gestire la dialettica politica in vista del bene comune, senza perdersi in scaramucce che alla fine non servono che a confermare il proprio potere.
La seconda sfida di papa Francesco è quella di passare dalla partecipazione individuale alla dinamica collettiva. La prima è addirittura data per scontata sulla base della tradizione della Chiesa: «Ricordiamo che “l’essere fedele cittadino è una virtù e la partecipazione alla vita politica è un’obbligazione morale”» (n. 220). Nel nostro Paese segnato dall’antipolitica e da una cultura dell’interesse individuale queste parole devono quanto meno spingere a un serio esame di coscienza (individuale e soprattutto come Chiesa italiana). Ma papa Francesco alza l’asticella e invita a innescare un processo per diventare un popolo: «un lavoro lento e arduo che esige di volersi integrare e di imparare a farlo fino a sviluppare una cultura dell’incontro in una pluriforme armonia» (ivi), che abbracci non solo quelli del proprio gruppo, movimento, associazione o partito, ma tutto il Paese (immigrati compresi). Davvero un bel percorso per costruire una Terza Repubblica qualitativamente diversa dalla Seconda.