Il teologo risponde circa il LimboSecondo la dottrina cristiana il Limbo è il luogo dell’oltretomba, separato dall’Inferno, riservato a coloro che muoiono senza peccato alcuno, tranne la macchia di quello originale. Lì, come pena, vi è la privazione della vista di Dio. Ma come è possibile relegare nel Limbo, «tra color che son sospesi», come diceva Dante, in una situazione eterna di non tanto marginale sofferenza, chi, comportatosi in maniera retta e corretta, non abbia potuto conoscere Dio o chi non abbia ricevuto il Sacramento del Battesimo per svariati motivi? (appartenenza ad altra religione o avere credo diverso o essere vissuto in terre lontane, addirittura non «toccate» dalla civiltà, ecc.). Non è ingiusto ed inconcepibile ciò? E la misericordia di Dio non interviene, come è avvenuto dopo la morte e la Resurrezione di Cristo per i Profeti e per tutti quei personaggi biblici fedeli al Signore ed alle sue leggi?
Gian Gabriele Benedetti
Risponde don Carlo Nardi, docente di Patristica alla Facoltà teologica dell’Italia centrale
Per capire il nuovo testamento non possiamo ignorare l’antico; anzi senza una conoscenza della bibbia ebraica, Come l’anime del limbo. (intitolavo così una riflessione che offrivo nel foglio «Parrocchia di Santa Maria a Quinto in Sesto Fiorentino. Lettera settimanale ai parrocchiani» del 26 settembre 2010, da cui prendo spunto). E s’aggiungeva: né d’Iddio né del diavolo. Come dire: né carne né pesce. Se poi, alla buona, si voleva danteggiare, si precisava: s’era come color che son sospesi (Inferno 2,52), con l’idea che questo benedetto «limbo» non è poi una gran bella cosa. Come mai?
Tutto cominciò con sant’Agostino, il quale raccolse quel che c’era prima di lui e lo ristrutturò da par suo. Anche troppo. Già san Cipriano intendeva come invocazione del salvifico battesimo il pianto del neonato, contristato e corrucciato per essere venuto al mondo.
La parola definitiva parve dirla sant’Agostino con un ragionamento che tento di semplificare riducendolo all’osso: la salvezza è grazia; ma la grazia è comunicata nel battesimo, in concreto il sacramento ricevuto in atto con l’acqua e con quelle parole. Senza questo non c’è vita divina, resta il peccato originale e in peccato ci si resta. Sicché, privati di Dio, si va all’inferno o, meglio, per non banalizzare Agostino, con la morte che ci sottrae le creature si manifesta lo stato in cui si è, la solitudine assoluta che è la ragion d’essere dell’inferno. Per il solo peccato originale: ah, quella benedetta donna e il tontolone di suo marito! Persino Agostino doveva sentirsi a disagio rispetto a questa sua conclusione: quella per cui tutti i bambini morti senza battesimo d’acqua e a maggior ragione i cresciutelli che qualche peccato ci mettono di proprio e gli adulti, tutti indistintamente nel calderone! Un certo imbarazzo indusse il santo vescovo a raffreddare per i teneri bambinelli quel bollore: sentenziò infatti che erano condannati a «mitissime pene», e nacque il limbo. O, più correttamente, l’idea del limbo.
Ma limbus, ossia «lembo», «frangia» di che cosa? A prima vista non parrebbe un inferno, privo come sembra di diavoli e di forconi. Ma non è neppure una succursale del paradiso, dove si entra soltanto in grazia di Dio. Men che mai di purgatorio, destinato prima o poi a finire e comunque ufficio chiuso per dismissioni almeno qualche minuto prima del giudizio universale. E allora non ci resta che l’inferno. Un inferno senza calderoni, diavoli e annessi e connessi da processo criminale, speriamo del tempo che fu? Senza pena dei sensi, insomma? Ma non senza solitudine la quale, a pensarci bene, è la pena essenziale dell’inferno, tant’è che ogni solitudine è più o meno inferno. La solitudine è la pena del danno, così detta dai teologi, la perdita irrimediabile, definitiva, eterna, di Dio, quella già inerente, anzi intrinseca al peccato, quella per cui è solo questione di tempo, di poco tempo, per chi è in via di dannazione e ci rimane.
Ma allora che fine fanno questi bambini? Intanto, si può, anzi si deve dire che quella di sant’Agostino non è l’ultima parola. Non solo. Dalla tarda antichità, con un boom nel tardo medioevo, prende campo la devozione ai santi Innocenti. Conseguenza: c’è una salvezza di infanti a prescindere dal battesimo di acqua, ma anche da quello di desiderio ed anche da quello di sangue consapevoli e voluti. C’è, sì, un battesimo di sangue ma inconsapevole. I santi innocentini, come si chiamavano a Firenze, sono già un’eccezione. E, si capisce, quando si fa eccezione … non sempre l’eccezione conferma la regola; anzi talvolta l’eccezione pone un’incrinatura alla regola della dannazione di tutti i non battezzati. Altre eccezioni ci sono per esempio in Dante, nell’auspicio per la salvezza degli infedeli in un abate greco verso il mille, Giovanni Mauropode con la probabile ripresa del motivo patristico dei «semi» di bene – anche di grazia? – diffusi dal Verbo, che «illumina ogni uomo» (Gv 1,10) «che viene in questo mondo» (Gv 1,10-11 secondo la versione latina della Vulgata).
Nonostante il sentire del concilio Fiorentino – nella fattispecie ben poco umanistico – (Denzinger) e la recrudescenza dell’agostinismo nel giansenismo, anzi in probabile polemica antigiansenista Pio IX nell’enciclica Quanto conficiamur del 1863 (DS 2866) faceva capire che nessuno va all’inferno se non per un peccato compiuto dalla volontà del soggetto. Anch’io ricordo che nel libretto della Dottrina voluto dal card. Dalla Costa, anni cinquanta, alla domanda: «Può salvarsi chi è fuori della Chiesa?» si rispondeva: «Chi per propria colpa è fuori della Chiesa – intendendo ovviamente quella visibile – non può salvarsi», facendo così ben sperare in una salvezza. Non solo. Nel 1949 il Sant’Uffizio ribrottò alcuni teologi di Boston, secondo i quali era certa la dannazione senza il battesimo d’acqua o almeno quello di desiderio esplicito, quello del catecumeno col deliberato intento di ricevere il battesimo. La Santa Sede optò invece per un desiderio implicito, possibile anche in chi non ha conosciuto né Gesù né la Chiesa (D 3871-3873). Il fatto prepara il concilio Vaticano II: secondo la Lumen gentium (16) e la Gaudium e spes (22) Dio dona la sua grazia ad ogni essere umano, rendendone possibile la salvezza. «Dio vuole che tutti gli uomini siano salvi e che giungano alla pienezza della verità», secondo la Prima lettera a Timoteo (2,4)? Ma se non desse la sua grazia a tutti, come si potrebbe sostenere questa affermazione «paolina», sempre cara al cattolicesimo nella sua interpretazione più ovvia (Catechismo della Chesa cattolica 1261).
C’è un altro testo autenticamente paolino, dalla Lettera ai Romani: «Dove ha abbondato il peccato, ha sovrabbondato la grazia» (5,20). Se potesse salvarsi soltanto che riceve il battesimo d’acqua o di desiderio esplicito, sarebbe segno che gli effetti del peccato originale sono più travolgenti e distruttivi dei frutti dell’incarnazione, morte e risurrezione del Signore, pasqua invece alla quale dalla parte del Salvatore è in comunione ogni essere umano. La speranza, – teologale, s’intende, ossia speranza in Dio che è fedele alle sue promesse di salvezza -, speranza della salvezza per i bambini che muoiono senza battesimo, tra l’altro titolo di uno studio della Commissione teologica internazionale (Città del Vaticano 2007), trova conferma e voce nel vigente Rituale delle esequie cristiane, anche con la celebrazione del sacrificio della messa in suffragio.