Se le religioni sono così buone, perchè il mondo va come va?
La domanda a cui non riesco a sottrarmi è: ma se le religioni sono così buone, perché mai il mondo va come va? Sono cosciente che il problema è delicato e che non possiamo attribuire tutta la responsabilità alla religione. Credo tuttavia che attribuire tutto alla malvagità umana e accontentarsi di messianismi escatologici non sia sufficiente. Questo mi porta a fare un breve esame di coscienza, in tre punti: la prassi; la teoria; e infine l'appello dello Spirito (la conversione).
1. La prassi
La testimonianza della storia ci evidenzia due punti; il primo: le religioni chimicamente pure non esistono e i frutti della loro incarnazione non sono tanto lusinghieri. In questo senso la testimonianza della storia è crudele: le religioni che predicano la pace fanno la guerra, le religioni che predicano la famiglia umana si dividono in sette, caste e diverse organizzazioni (e non hanno rapporti tra loro, quando non si combattono!). Ebbene, non ci possiamo rifugiare in quanto leggiamo in un libro di Nikolai Berdjaev un filosofo che pure apprezzo e stimo, La dignità del cristianesimo e la indegnità dei credenti (del 1934). È molto facile scusarsi grazie a buone teorie e attribuire tutto alla malvagità umana. Se questo fosse certo, la responsabilità non sarebbe del cristianesimo, che è perfetto; non del buddhismo che è meraviglioso; non delle beatitudini che entusiasmano chiunque. Le religioni sarebbero in tal caso teoricamente pure e fantastiche… Eppure quando una persona vive in Paesi dove il cristianesimo non arriva neppure all'uno per mille, l'unico modo per spiegare cos'è il cristianesimo, è guardare cosa fanno i cristiani.
All'inizio – quando i cristiani erario perseguitati – la gente diceva: "Guardate come si vogliono bene". Adesso non so se si potrebbe dire lo stesso. "Li riconoscerete dai frutti". I frutti (di tutte le religioni senza eccezione) dal punto di vista storico, non sembrano essere né troppo maturi né troppo appetitosi. E non possiamo attribuire la responsabilità solamente alla prassi e incaricare il "braccio secolare" di eseguire il verdetto delle inquisizioni, mentre noi andiamo a pregare Dio. Questo non ha alcuna credibilità. Il problema è complesso. La natura umana non è innocente. Si dirà che forse staremmo ancor peggio senza il freno delle religioni. Questo tuttavia non ci esime dal fare un esame di coscienza. Io posso criticare le Multinazionali o la Borsa, per esempio. Eppure queste istituzioni non ci ingannano: ci dicono chiaramente che il loro obiettivo è fare soldi. Le religioni invece pretendono di trasformare l'uomo, di migliorarlo. C’è una differenza!
Ripeto: "Li riconoscerete dai frutti". E se una cosa produce dei risultati cosi sconcertanti, vuol dire che l'esame di coscienza deve essere più profondo e non solo un esame morale. Dobbiamo amarci, dobbiamo essere più buoni, l'hanno detto tutte le religioni. Ma non è stato sufficiente. Manca la grazia, il coraggio, la forza (…) E le guerre più sanguinose hanno innalzato lo stendardo di Dio tra le loro bandiere… Forse c'è qualcosa che dovremmo approfondire di più. E diciamo che questa in particolare è la responsabilità di noi che siamo superprivilegiati, nel senso che abbiamo tempo libero per pensare, per riflettere, per meditare e perfino per pregare, mentre molta gente non dispone di tutto questo tempo libero.
2. La teoria
Il pericolo è reale: il pericolo della degenerazione o del demoniaco, quando si unisce con il divino, per utilizzare queste due parole come simboli. È la vita stessa ad essere un rischio, è la vita stessa ad essere pericolosa. La religione è al tempo stesso divina e demoniaca; e se non facciamo un discernimento di spiriti, forse cadremmo nelle stesse trappole della storia millenaria a cui mi riferivo. Le religioni in un modo o nell'altro trattano dell'Assoluto (questa parola non mi piace, però qui ci serve): quando uno si ritrova davanti all'Assoluto, lo dico simbolicamente, tutto il resto diventa così insignificante, superficiale, indifferente, così poco importante che ci sembra di poterlo lasciar da parte. Vedi, per esempio, il vescovo che eliminò i catari: se sono buoni andranno in paradiso, il che vuol anche dire: se sono cattivi allora se lo meritavano. Quando una persona si incontra con l'Assoluto, viene preso da un sentimento di "santa indifferenza" che è quello che permette di condannare a morte, come tante e tante religioni accettano. Quando una persona si incontra con l'Assoluto, eterno definitivo, che non passa, è molto più profondo di tutto il resto, sente che può trattare senza troppa attenzione gli affari quotidiani, per i quattro giorni fuggevoli che passeremo in questo mondo… Detto in altre parole: quando una persona è presa dall'ossessione dell'Assoluto, finisce per pensare che le cose più importanti si sviluppino su un altro livello e che non valga troppo la pena di preoccuparsi per le questioni terrene.
Questa specie di fascino per l'Assoluto ha comportato un peccato di autosufficienza, un certo disprezzo per i fatti storici. Abbiamo peccato anche di un'altra cosa, frutto degli ultimi secoli, sia in Oriente come in Occidente: mi riferisco alla fissazione dell’oggettivazione. La religione è diventata un oggetto, perfino un oggetto di studio, in modo tale che si insegna la religione come una materia così come si può insegnare ingegneria. Abbiamo oggettivato la religione e abbiamo lasciato da parte il soggetto, cioè il credente, la persona, l'essere umano: quello che facciamo, in ultima istanza, è discutere su ideologie, idee e credenze, eliminando o lasciando da parte l'autentica fede che salva, che si vive e ci colpisce. Abbiamo identificato la religione con una dottrina, ma la religione è molto di più di una dottrina o di una istituzione. Abbiamo identificato la religione con una verità oggettiva, ma come tale è un fatto impersonale, che non guarda l'altro e che, quando si crede di possedere, si fa assoluta.
L’oggettivazione di qualsiasi cosa porta con il passare del tempo alla disumanizzazione. Visto da un'altra ottica, lo scandalo culturale d'Occidente (e questo non soltanto a partire dalla rivoluzione francese) si evidenzia nel fatto che la religione diventa un fenomeno settario, nel significato più esatto della parola, come fosse una pratica privata. Questo costituisce già la degradazione di quel che è il nucleo religioso dell'uomo. Forse dovremmo meditare un po' su cosa sia la religione.
Dovrebbe farci riflettere quel testo del Vangelo: "Cieli e terra passeranno, però la mia parola non passerà" (Matteo 24,35). Gesù non dice: "I miei scritti non passeranno", o: "La scrittura non passerà". Ma le parole, per essere tali, si devono sentire, si devono ascoltare, e per ascoltarle io devo far silenzio dentro me, e devo diventare cosciente del senso del silenzio con una disciplina.
Dicono i Veda: "Se mille testi sacri mi dicessero che il fuoco non brucia, non gli crederò". Se la nostra religione, qualunque essa sia, non è un'esperienza vissuta, allora creiamo le condizioni perché essa si riduca ad un mero concetto. C'è bisogno che la parola sia ascoltata, per questo le religioni vive non possono ridursi a religioni del libro, ma devono essere religioni della parola.
D'accordo col mondo contemporaneo, dobbiamo oggettivare le cose, cominciando dalla verità, dimenticando la cosa più tradizionale: che la verità è una relazione, e che perciò ci rende liberi. Il pericolo dell'oggettivazione può essere ancor più sottile della trappola di credersi in possesso della verità.
3. L'appello dello Spirito
Se le cose sono andate nel modo che abbiamo delineato, non dovremmo superare questa dicotomia tra una teoria che ci sembra perfetta, e una prassi che è molto imperfetta? Certo, per cominciare occorre la conversione alle religioni. È relativamente facile osservare che non siamo stati fedeli ai suoi messaggi: cosa se ne è fatto, per esempio, del Sutra del Loto buddhista? Forse le religioni, come categorie sociologiche, hanno tradito più o meno i loro messaggi ed è un momento di speranza vedere che adesso se ne stanno accorgendo sempre di più. Ma questa consapevolezza esige poi anche il pentimento e un cambiamento. Le religioni non sono state coerenti.
Ora però facciamo un passo in avanti. Forse è la religione stessa (cioè quello che riteniamo per religione) ad aver bisogno, in questo inizio del ventunesimo secolo, di un cambiamento radicale: che cosa intendere per religione. Altrimenti non arriveremmo molto lontano.
Più di tremila anni d'esperienza ci possono dimostrare che non è sufficiente fare le cose con maggior buona volontà; abbiamo bisogno di qualcosa in più. Dico abbiamo, cioè noi, ancorché non da soli, abbiamo una funzione positiva, attiva e creatrice. Siamo tra le molte persone che non vogliono essere burattini, o marionette che seguono le mode imposte dalle multinazionali, dai mass media e dall'inerzia della storia. Ebbene, perché le ribellioni degli schiavi non siano sconfitte sul nascere, occorre anzitutto liberarsi dal sentirsi schiavo. Per compiere questa liberazione interiore della religione, abbiamo bisogno prima di tutto di liberarci personalmente di tutte le paure; credere sinceramente nella forza liberatrice, cioè salvatrice, dello Spirito.
Cosa vuol dire una visione più profonda della religione? Per rispondere in breve, sono obbligato a semplificare. Forse possiamo convenire sul fatto che ci sono stati tre momenti kairologici nella comprensione dell'essere umano e del fatto religioso (li chiamo kairologici e non cronologici, perché non credo che il tempo sia come una autostrada che porta al cielo, all'inferno, al nulla o da nessuna parte).
Il momento totalitario della religione. La religione comprende tutta l'attività dell'uomo con i conseguenti pericoli e anche gli enormi vantaggi. La religione viene vissuta come un fatto culturale e antropologico con le sue costruzioni culturali, le sue istituzioni, le sue prigioni, le sue cattedrali ecc. La religione occupa tutto, è il cerchio che pervade tutta la circonferenza della vita umana.
Il momento della religione marginale. Per reazioni storiche molto complesse, gradualmente e non soltanto in occidente, le religioni si sono spostate verso la periferia, si sono emarginate fino a rimanere rilegate all'ambito della libertà individuale o di gruppi riservati, tollerate come fatti quasi esclusivamente privati. Abbiamo reagito contro questa specie di dominio eteronomico della religione fin dal primo momento, cioè fin dalla religione che vuole tutto, che vuole intromettersi ovunque, e l’abbiamo emarginato, abbiamo fatto di lei una cosa specifica. La religione è andata confinandosi verso i limiti della circonferenza, verso "l’al di là", verso un altro mondo poiché questo rispettava l'autonomia delle altre attività umane.
Il momento della religione "centro". Seguendo la metafora spaziale, credo sia arrivato il momento di non considerare la religione né come il tutto né come un fenomeno marginale, ma piuttosto come il centro di tutta la realtà, di tutta la vita umana, di tutte le attività; però il centro non è il cerchio né la circonferenza, il centro non ha quasi dimensioni, il centro non ha influenza nè ha potere, però rende possibile che esista un cerchio e una circonferenza, che le cose siano in tutta la loro pienezza. Ritengo che l'immagine del centro superi l'emarginazione di una parte e il totalitarismo dell'altra. Questo sarebbe l'ontonomia della dimensione religiosa con il resto delle attività dell'uomo. La religione non è una cosa specifica, né soltanto un'istituzione o una dottrina: è l'aspetto centrale, cioè il centro di tutta la realtà. Questo mi porta, per dirla in modo sintetico, a quello che credo sia il novum di questo secolo agli albori: il riconoscimento della sacralità della secolarità.
Parlavo prima dell'incanto e del messaggio dell'Assoluto. L'Assoluto contiene in sé una contraddizione: si salva solamente come concetto limite. Possiamo pensare l'Assoluto soltanto in relazione a noi, quindi non è tale ab-solutus quanto piuttosto l’altro polo del "relativo" e in questo senso è anche presente in tutto il relativo, in modo che se Dio è la realtà assoluta, allora non può trovarsi al margine della quotidianità né della tecnocrazia. Capire ciò, ci risulta faticoso perché dobbiamo modificare la nostra idea di Dio ma anche del mondo e, naturalmente, della religione.
La conversione alla quale mi sono riferito e che credo sia necessaria per la sopravvivenza dell'umanità, è una conversione molto più radicale di quella semplicemente morale. Si tratta di scoprirne il nucleo centrale che è qui, che si trova nelle cose, nelle persone, negli animali, negli astri e ovunque, e che è il centro, E tuttavia questo centro non si muove, sono le cose a muoversi. Detto in forma più polemica, le religioni al plurale non hanno il monopolio della religione. La religione è una dimensione umana che ci distingue in modo specifico da tutti gli altri esseri che noi conosciamo nel mondo e che ci apre all'infinito, all'ignoto, all'aldilà, a ciò che in ultima istanza è quello che ci muove. Per capirci, definisco questa dimensione dell'uomo religiosità.
La religione non è la cosa principale della vita ma, continuando il ragionamento per metafore, è un colore indispensabile di tutta la realtà. Se togliamo il colore delle cose, queste spariscono. Il colore non è tutto l'oggetto, però una cosa senza colore non potrebbe neppure esistere. La secolarità, che non è il secolarismo (che è un'ideologia), né la secolarizzazione (che è un fenomeno storico) presuppone il riconoscimento del senso sacro, del senso religioso dell'esistenza umana, della materia e della temporalità. In termini cristiani direi che è proprio questa l'incarnazione: con tanto di pelle, ossa, carne, stanchezza, ecc.
Una sacra secolarità
Il novum a cui mi sono riferito, è la coscienza che le religioni sono per loro costituzione secolari, che il saeculum non è soltanto profano (pro-fanum), ma altresì sacro. Che Dio sia l'anima del mondo, che sia il suo corpo, come dicono tante tradizioni, non significa né panteismo né monismo. L’anima e il corpo non sono la stessa cosa, però la loro separazione significherebbe la morte. Se credo, per esempio, che Cristo è resuscitato, ma questo fatto mi è estraneo e non suppone che a mia volta anch'io resusciterò, allora tutto è inutile. La grande sfida è cominciare a staccarsi dalle etichette, anche da quelle religiose, e andare al fondo vero della dimensione religiosa dell'essere umano; una dimensione che poi si esprime in una grande varietà di forme, linguaggi, manifestazioni e culti. Ovviamente, si potrà poi discutere su quale sia la migliore, la più adeguata ecc., ma questo in un secondo tempo.
Dal punto di vista filosofico opero una distinzione netta tra fede (che è una dimensione costitutiva dell'uomo) e credenza (che è l'articolazione culturale, storica di questa dimensione che chiamiamo fede). Le credenze sono molto diverse e su esse si può discutere, non sulla fede però, perché se la fede avesse oggetto sarebbe idolatria; la fede non è oggettivabile; è piuttosto questa coscienza – che la persona ha -, di essere costitutivamente aperta, di essere in-finita. Molte religioni direbbero che ò proprio questa la dimensione divina della realtà.
Già Platone, commentando la sibilla di Delfi, diceva che "conoscere te stesso" equivale a "conoscere Dio"; Meister Eckhart scrive che "chi conosce se stesso, conosce tutte le cose" e un hadith del Profeta Maometto dice "chi conosce se stesso, conosce il suo Signore".
Insisto che dobbiamo partire dal riconoscimento che non abbiamo agito troppo bene, ma non perché siamo stati cattivi, bensì perché non eravamo abbastanza preparati per il compito dell'uomo libero, che consiste soprattutto nel cooperare alla creazione del mondo. Questa è la nostra responsabilità. Ancora ci vergogniamo se ci dicono che siamo religiosi, perché sembra che religione significhi una setta e non la coscienza che partecipiamo attivamente all'avventura cosmica di tutta la realtà. Come abbinare questa sacra secolarità con ciò che è puramente sacro? Per rispondere a una simile domanda dovremmo ricordare che il sacro puro non esiste: il Dio è il Dio dell'uomo, così come l'uomo è l'uomo di Dio. L’esame di coscienza non ci deve demoralizzare; piuttosto contribuisce a farci diventare molto più realisti. Il grosso del lavoro è ancora tutto da fare! Perché l'uomo non è solo un essere storico frutto del passato, è un co-creatore, cooperatore, dice San Paolo, della forza creatrice di tutta la realtà. Credo che questo sia il nucleo profondo dei movimenti i quali si rendono conto che con piccoli impacchi qua e là non si va da nessuna parte. Quando il mondo brucerà, quando il nostro momento storico si troverà ad un crocevia fatale tra la vita e la morte, sarà il momento in cui scopriremo questo nucleo che ci ha condotto assieme fin qui e che allo stesso tempo ci farà diventare più umani e più uniti nei confronti di tutti, anzi di tutte le cose. Religione è ciò che unisce, che vincola la mia anima al mio corpo, che mi vincola agli altri, alla terra e a questo mistero che chiamiamo Divinino con altri nomi. La religione in una parola è quella che ci vincola a tutta la realtà, in un vincolo d'inter-indipendenza.
Per dare inizio a qualcosa di nuovo, per questo vale la pena vivere. Non è questione di ripetere il passato né soltanto di criticarlo. La religione non è archeologia, non è come prima; è nuova ogni giorno: lo Spirito fa nuove tutte le cose, costantemente. La novità però se è il risultato di una creazione non ha modello, non ha paradigma: ci dà la libertà, e pertanto la responsabilità di partecipare attivamente nel dinamismo della storia e della realtà.