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La Chiesa ha bisogno di hobbits

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Aleteia Team - pubblicato il 28/01/14
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Non tutti devono essere Tommaso d’Aquino
Ho molti amici che si sono convertiti al cattolicesimo nel corso degli anni. Io stesso sono un ex evangelico, oggi cattolico. Il contatto con cattolici intellettuali in luoghi come Princeton, l’ISI e molte organizzazioni senza scopo di lucro di Washington è sufficiente per mostrare ai giovani evangelici quello che si stanno perdendo. La bellezza e la grandiosità, la connessione con la storia e la forza intellettuale sono spesso citate come ragioni per la conversione.

C’è però anche una contro-argomentazione che ho sentito: che la dimostrazione di cattolicesimo che si vede nei luoghi che ho menzionato è lungi dall’essere il cattolicesimo “normale”. Il cattolicesimo “normale” di oggi può essere superstizioso, mediocre a livello di sostanza e formazione spirituale; può portare i suoi seguaci in chiese che invecchiano rapidamente o sono piene di ispanici in rapido processo di secolarizzazione. Una contro-argomentazione, insomma, basata sull’avvertimento che “non è ciò che sembra”.

Cercando di comprendere questo scenario, dovremmo forse cercare un cristianesimo altamente intellettuale? Vorremmo che tutti fossero intellettuali? Il nostro parametro di un buon cristiano è una persona con una formazione post-lauream che scrive la sua dissertazione su Tommaso d’Aquino?

So che Tolkien, un cattolico convinto, ne ha parlato ne “Il ritorno del re”. Nel capitolo “Le case di guarigione”, Pippin osserva che gli hobbits non hanno nulla a che vedere con re, castelli e grandezze esteriori. Merry risponde:

“Ma almeno ora possiamo vederli e onorarli [i re]. La cosa migliore è amare innanzitutto quello che dobbiamo amare, suppongo; bisogna iniziare da qualcosa, e gettare radici, e il suolo della Contea è profondo. Ad ogni modo, ci sono cose più profonde e più alte. E se non fosse per queste, e anche se non si conoscono, nessuno potrebbe coltivare l’orto in quella che definisce pace. Mi rallegra sapere queste cose, un po’. Ma non so perché sto parlando così. Dove tieni quella foglia? E prendi la pipa dal mio pacchetto, se non è rotta”.

Pippin e Merry non sono intellettuali. Non sono menti brillanti, ma in questo piccolo discorso di Merry possiamo notare due aspetti a mio avviso fondamentali per una Chiesa sana:

1. Il riconoscimento, da parte delle persone “normali”, del fatto che le cose valorizzate dagli intellettuali, in una società rettamente ordinata, hanno impatto su tutti, anche se non tutti comprendono chiaramente queste cose. Di conseguenza, le persone possono rispettare quelle preoccupazioni apparentemente estranee. Potremo giudicare domani il valore delle élites di oggi in base a quello che il loro lavoro ha coltivato in comunità e anime.

2. Un apprezzamento per le cose che contano, anche se al loro livello più fondamentale. Gran parte della vita ben vissuta consiste così nell’imparare ad apprezzare le cose certe.

E questo gli hobbits lo sanno. Sarebbe difficile trovare qualcuno nella Terra di Mezzo della Terza Età o nell’America del XXI secolo che provi più piacere di loro per la buona musica, le bevande, il cibo, la casa, gli alberi o l’amicizia. Merry, contrariamente ai suoi amici nella Regione, ha però la sensazione che queste cose vengano da qualche parte, che valga la pena esplorare questa “qualche parte” e conoscerla in modo più approfondito, anche se non è lui a farlo (è importante: alla fine del suo discorso breve e sorprendentemente profondo, Merry scuote la testa e chiede la sua pipa).

Non dobbiamo volere che tutti o la maggior parte siano intellettuali. Dobbiamo volere che tutti, però, siano in qualche misura hobbits.

Traduzione a cura di Aleteia

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