Nuova edizione per il libro di Gian Franco Svidercoschi che ripercorre l’amicizia tra Karol Wojtyla e Jerzy Kluger, fondamentale per il dialogo del papa con l’ebraismoVent'anni fa, quando fu pubblicata la prima edizione nel febbraio del 1993, il libro fu tradotto in 60 Paesi e 20 lingue. Oggi, quando i segnali dell'intolleranza e della violenza, rischiano a volte di oscurare la realtà di un mondo sempre più connesso e interdipendente, l'incredibile storia vera di due ragazzi – uno ebreo e uno cattolico – cresciuti insieme sui banchi di scuola di una Polonia prebellica, separati in modo crudele dal conflitto mondiale, e poi ritrovatisi quando uno era già cardinale e sarebbe diventato Papa Giovanni Paolo II, può insegnare ancora molto sul valore dell'amicizia e della comprensione oltre le differenze. Ne è convinto il giornalista Gian Franco Svidercoschi, autore di “Il Papa e l'amico ebreo. Storia di un'amicizia ritrovata” (una coedizione Cairo e Libreria Editrice Vaticana), presentato il 23 gennaio a Roma con gli interventi di don Giuseppe Costa, direttore della Libreria Editrice Vaticana, Riccardo Di Segni, rabbino capo della Comunità ebraica di Roma, Gianni Letta e lo storico Andrea Riccardi.
Qual è il fascino di questa storia?
Svidercoschi: Una serie di circostanze straordinarie che però sono vere. Lolek, come veniva chiamato affettuosamente Karol Wojtyla da bambino e Jurek, cioè Jerzy Kluger, si conoscono da bambini sui banchi della prima elementare e diventano amici inseparabili. Ognuno di loro frequenta la casa dell'altro e anche il luogo di culto dell'altro. Crescono praticamente insieme fino alla maturità ginnasiale. Poi arriva la seconda guerra mondiale a travolgere le loro vite e quelle di tantissimi altri. Mentre Wojtyla percorre le tappe della vita che conosciamo, Kluger scappa verso est con il padre nel tentativo di sfuggire ai tedeschi e alle deportazioni degli ebrei nei campi di sterminio ma viene preso dai russi e mandato in Siberia. Quando Russia e Germania diventano nemiche, Kluger si unisce all'esercito del generale Anders e combatte a Montecassino. Finita la guerra si laurea in ingegneria, si sposa e dopo varie vicende apre in Italia una ditta di import-export. Dallo scoppio della guerra non era più tornato in Polonia e non sapeva più nulla di Lolek. Poi un giorno, legge su un giornale di questo arcivescovo di Cracovia che aveva fatto un bel discorso in una delle sessioni del Concilio Vaticano II. Non era nemmeno sicuro che fosse davvero il suo amico, non sapeva che fosse diventato sacerdote. Invece era proprio lui e dal 20 novembre del 1965, quando si incontrano di nuovo a Roma, continueranno a vedersi sempre, anche quando Wojtyla diventerà Papa. Un'amicizia sopravvissuta intatta all'orrore della guerra: solo a Wojtyla Kluger riuscirà a raccontare per la prima volta della mamma, della nonna e della sorella di 20 anni morte ad Auschwitz. Al termine della sua vita, malato di Alzheimer, la terribile malattia che cancella la memoria, Kluger – testimoniano i medici – ricordava della sua vita solo due o tre episodi dell' amicizia con Lolek a 6-7 anni.
L'amicizia tra Lolek e Jurek era normale, lei ha scritto, negli anni venti in Polonia: da dove nasce allora la terribile vicenda dell'antisemitismo in quel Paese?
Svidercoschi: Il 30% dei 10 mila abitanti della Wadovice dell'epoca erano ebrei: la frequentazione con i cattolici apparteneva alla quotidianità della vita. Fino alla seconda guerra mondiale non c'era discriminazione nei confronti del popolo ebraico e anzi la Polonia era stato uno dei Paesi che aveva aperto le porte agli ebrei dopo che erano stati cacciati da altre nazioni nel XIV e XV secolo. Se c'era dell'antisemitismo riguardava le campagne dove i contadini guardavano con ostilità al benessere economico degli ebrei. In una cittadina come quella di Wadovice dove c'erano scuole e teatri le relazioni erano buone: il padre di Kluger, avvocato, difendeva anche i non ebrei. Nei suoi ricordi, Wojtyla dirà che frequentando la sinagoga e ascoltando le preghiere aveva avvertito che, pur nella differenza, stavano pregando lo stesso Dio. La serenità dell'accettazione reciproca è resa evidente dal fatto che il rapporto tra i due sopravvive alla guerra e riprende con la stessa intensità 27 anni dopo.
Quanto è stata importante l'amicizia con Kluger per i gesti che papa Wojtyla ha compiuto verso il mondo ebraico?
Svidercoschi: E' stata fondamentale. Aver conosciuto l'ebraismo dal “di dentro” ha dato a Wojtyla non soltanto la naturalezza di alcuni gesti – per esempio entrare per primo da Papa in una sinagoga dopo duemila anni – ma anche una credibilità personale che gli è servita per vincere le resistenze di parte del mondo ebraico. E in tutti questi passaggi – la visita alla sinagoga di Roma, il viaggio in Israele, la visita allo Yad Vashem, il Museo dell'Olocausto, la visita ad Auschwitz – Kluger è stato sempre con lui. La presenza dell'amico ebreo ha rafforzato i gesti e le parole del pontefice perché rappresentava la testimonianza di un legame così forte da sopravvivere alla guerra e quindi dava autenticità alle sue espressioni. Wojtyla è stato il pontefice che ha detto le parole più forti sui rapporti tra ebraismo e cattolicesimo: a quanti pretendevano che il popolo del Nuovo Testamento, cioè i cristiani, spettasse sostituire il popolo dell'Antico Testamento, cioè gli ebrei, ha ribattuto che il cristianesimo può comprendere la sua identità solo attingendo alla comune radice di Abramo. E sempre lui ha detto che i cristiani erano stati troppo tiepidi nell'opporsi alla barbarie nazista che ha prodotto Auschwitz “Golgota contemporaneo”.
Lei ha voluto pubblicare di nuovo il libro sia per dare atto di quanto è successo dopo l'incontro tra Wojtyla e Kluger nel 1965 – la prima edizione si chiudeva con il loro abbraccio – ma anche ciò che ha provocato la pubblicazione del libro: è così?
Svidercoschi: Questo libro ha provocato tanti effetti positivi e ha fatto intrecciare tante storie intorno a sé. La collega tedesca che l'ha tradotto nella sua lingua mi ha raccontato del dolore personale che aveva provato rendendosi conto che suo padre, nell'esercito tedesco, si era trovato a Montecassino sul fronte opposto a Kluger. Quando l'ho presentato in Ungheria ai bambini della scuola ebraica, al racconto dell'amicizia tra questi due ragazzini di fede diversa, i piccoli hanno cominciato a piangere perché invece a loro questo tipo di amicizia era preclusa. Nella nuova edizione ho raccontato anche di un'altra straordinaria storia di ritrovamento tra persone separate dalla guerra e reso possibile proprio dal mio libro. Ma la cosa più straordinaria rimane il valore dell'amicizia tra Wojtyla e Kluger e il messaggio che può dare al mondo di oggi. Il testo del 1993 si chiudeva con i due che si incontravano di nuovo nel 1965. Per rendere l'intensità di questo incontro avevo usato un'invenzione narrativa e parlato di un abbraccio, chiudendo con la speranza che un giorno cristiani ed ebrei possano riabbracciarsi. Avevo fatto leggere il libro all'attuale cardinale Dziwisz, allora segretario personale del papa il quale doveva averlo letto anche lui perché mi ha suggerito di cambiare una parola. La speranza, per Giovanni Paolo II, doveva essere che ebrei e cristiani non si “riabbracciassero” ma si “ritrovassero”, cioè si incontrassero di nuovo nelle comuni radici. Un verbo che suggerisce maggiore profondità spirituale ed umana. Spero che il libro, nella nuova edizione, nonostante i problemi che sorgono spesso, possa aiutare un cammino sulla base della radice comune tra ebrei e cristiani fatto di fiducia ed amicizia come quella tra Lolek e Jurek.