Tre i problemi urgenti con i quali chi si siederà al tavolo di Ginevra deve fare i conti: la necessità di un riconoscimento reciproco delle parti, il controllo effettivo sul terreno, il settarismo dilagante.La crisi siriana non è più solo siriana. Lo si ripete da più di un anno, ma le ultime settimane hanno certificato un ulteriore aggravamento. Mentre le grandi potenze cercavano di non far naufragare la conferenza di Ginevra 2 prima ancora del suo inizio fissato al prossimo 22 gennaio, la realtà è andata più veloce.
Da una parte il Libano, con la serie di attentati a bersagli sempre più eccellenti, e le voci incontrollate e inverificabili di un possibile confronto militare tra Hezbollah e le forze dello stato islamico dell’Iraq e del Levante (ISIL) anche oltre i confini siriani. Dall’altra l’Iraq, con l’insurrezione jihadista nella regione sunnita che segna il fallimento politico del governo al-Maliki. Senza dimenticare il problema curdo, largamente sottovalutato, ma potenzialmente esplosivo anche per la Turchia.
Eppure, forse proprio la percezione del pericolo di un allargamento a macchia d’olio del conflitto, lo spettacolo di devastazione e lo spettro di uno scenario somalo potrebbe produrre un salutare sussulto. O almeno questa è la speranza. In effetti, dall’inizio delle rivolte nel 2011 fino all’estate del 2013 la diplomazia in Siria non ha avuto alcun ruolo, per i veti reciproci, per il cinismo, per la fiducia riposta dai contendenti nella soluzione militare. Poi, nel settembre scorso, l’appello di Papa Francesco ha sparigliato le carte. È seguito l’accordo sul nucleare che ha permesso all’Iran di tornare nelle sedi internazionali. Ora suona l’ora della conferenza di Ginevra. Può rappresentare «l’inizio del desiderato cammino di pacificazione», come auspicato pochi giorni fa dallo stesso Papa Francesco?
In realtà, le sfide che la conferenza che dovrà affrontare sono gigantesche. Prima di tutto, c’è il rischio molto concreto che Ginevra 2 si tramuti in una semplice parata propagandistica dove ognuno spara (mediaticamente) sull’avversario. Per avviare un negoziato infatti occorre un minimo di riconoscimento reciproco. Ma se le premesse sono “tutti i ribelli sono terroristi” o “Bashar al-Asad deve morire”, non sarà facile accettare il principio stesso di una soluzione politica, anche se il fatto che le parti accettino di sedere allo stesso tavolo è già un risultato positivo.
Il secondo aspetto problematico è l’effettivo controllo sul terreno che le realtà convocate a Ginevra possono vantare. Già a livello del regime non è chiaro se tutte le azioni militari siano pianificate centralmente o come sia articolata la catena di comando, ma il problema è soprattutto drammatico per le opposizioni, dato che è escluso che al-Nusra o ISIL siedano a un tavolo negoziale. Nel frattempo il dossier terrorismo diventa sempre più scottante e nessun gruppo sembra oggi avere il controllo della violenza criminale comune che si nutre di odio settario.
Il terzo nodo è appunto il settarismo. Il regime ci ha scommesso, i jihadisti ripagano con stragi efferate di alawiti, drusi e cristiani. Per quanti successi militari al-Asad possa ottenere, resta il fatto che i sunniti rappresentano il 70% della popolazione: qualsiasi soluzione deve trovare il modo di includerli. L’evoluzione della guerra però è andata nella direzione opposta. Più il conflitto diventa confessionale, più la soluzione si allontana.
Con queste premesse, è ben difficile che si arrivi a una cessazione immediata delle violenze. Ma già un accordo che sospendesse l’afflusso di armi e militanti stranieri sarebbe un successo, perché la cessazione dei combattimenti è la precondizione per ogni forma di riconciliazione. In questo intricato scenario, come ha ricordato il Vaticano, c’è comunque una priorità assoluta: sono i civili. Poco prima di Natale, in mezzo alle varie cartoline di auguri, una in particolare mi ha colpito: è la fotografia, arrivata via skype, di una via residenziale di Aleppo devastata da un incendio. La grande città del nord dall’estate 2012 è al centro di una sanguinosa serie di offensive e controffensive tra ribelli e forze governative. Tra le linee del fronte sono restati i civili, assediati, intrappolati in una situazione umanitaria sempre più difficile, mentre i prezzi di cibi e combustibile (fondamentale per l’inverno) salivano alle stelle. L’orrore di Isra’ al-Masri, la bimba morta di fame nel campo profughi palestinese a sud di Damasco, non è purtroppo un caso isolato. La fotografia è accompagnata dal messaggio di un amico. «Gli scontri sono fuori città, ma di tanto in tanto sparano missili e razzi anche in città. Questa volta è arrivato molto vicino a casa. E va avanti da più di un anno». Dovrà durare ancora molto?