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Il “Jobs Act” e la questione lavoro in Italia

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Chiara Santomiero - Aleteia Team - pubblicato il 20/01/14
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Bruni: “manca nel documento di Renzi la specificità di una proposta legata al nostro territorio e alla nostra storia”
Riduzione delle varie forme contrattuali (ad oggi oltre 40) e sviluppo di un contratto di inserimento a tempo indeterminato a tutele crescenti; assegno universale per chi perde il lavoro, con obbligo di seguire un corso di formazione e di non rifiutare più di una proposta di lavoro; creazione di una Agenzia Unica Federale che coordini i centri per l’impiego, la formazione e l’erogazione degli ammortizzatori sociali; un codice del lavoro entro otto mesi; un piano industriale per sette settori lavorativi specificamente indicati: la crisi dell’occupazione, specie quella giovanile, stringe l’Italia in una morsa e il segretario del Pd, Matteo Renzi, prova a mettere in fila problemi e tentativi di soluzione nel “Jobs Act”, una piattaforma di discussione sul lavoro aperta ai contributi di organizzazioni di categoria, esperti, mondo della politica e di chi voglia partecipare. Aleteia ha chiesto l’opinione di Luigino Bruni, docente di economia politica all’Università di Milano Bicocca.

Cominciamo dagli elementi positivi…

Bruni: Il tentativo in sé è già positivo. Nel momento di difficoltà che viviamo oggi, con i dati allarmanti sulla disoccupazione giovanile che arrivano, è importante che un documento della politica affronti la questione lavoro, cercando soluzioni per ridurre il cuneo fiscale e rendere più semplici le assunzioni. Ho tuttavia delle perplessità di carattere generale sulla filosofia della proposta.

Di che tipo?

Bruni. Il titolo “Job Act”, per prima cosa. In inglese ci sono tre parole ad indicare il lavoro: work, labour e job. Quest’ultima indica i posti di lavoro mentre io credo che il problema italiano riguardi il lavoro in sé, come reinventarsi un’idea di lavoro che oggi non c’è più. L’Italia da anni ha perso capacità di produrre lavoro mentre ha creato molti posti di lavoro tramite il denaro pubblico e l’indebitamento, senza collegamento con l’economia reale: molti “job” e poco “work”. Solo la capacità di creare occasioni di lavoro, però, genera sviluppo. Senza un’economia che riparte anche il tentativo di Renzi di portare delle soluzioni parte dalla fine e non dall’inizio.

Cosa manca?

Bruni: Manca la specificità legata al nostro territorio e alla nostra storia. Il progetto di Renzi potrebbe essere quello del Labour Party di Blair, si potrebbero trovare orientamenti simili in Germania, ma non c’è traccia dell’elaborazione apportata dalla sinistra italiana alla storia del lavoro in Italia.

Un esempio?

Bruni: Manca ad esempio un rilancio del movimento della cooperazione che è stata la grande risposta dei lavoratori alle crisi dell’economia non solo in Europa ma nel mondo, come alla fine della guerra e negli anni ’50. Manca nel “Job Act” una lettura del capitalismo e della crescita della rendita che schiaccia il lavoro e i salari verso il basso come grande malattia del capitalismo. La domanda che occorrerebbe farsi riguardo a come uscire da questa stagnazione del mercato del lavoro e dell’economia è: in quale direzione vogliamo evolverci? E’ importante la visione culturale che c’è alla base delle soluzioni che si propongono. Il salario minimo o di cittadinanza per chi non lavora è un fatto positivo ma non va bene se significa accettare l’ideologia “dei due terzi”. La nostra Costituzione non afferma che bisogna dare reddito a tutti, ma dare a tutti lavoro. L’art.1, cioè, non riduce a due terzi chi deve lavorare mentre all’altro terzo concede un assegno di sussistenza.

Può essere utile in questa direzione la proposta di un contratto di inserimento a tempo indeterminato con tutele crescenti per i lavoratori?

Bruni: La semplificazione e la flessibilità in vista dell’assunzione sono positive, ma qui è in gioco -come già con la riforma Fornero- anche la flessibilità in uscita. Dimenticando anni di lotte in Europa per ottenere il riconoscimento che nel mondo del lavoro c’è una parte forte e una debole ed è questa che mirano a tutelare le norme che frenano la flessibilità. In questo momento di fragilità del lavoro occorre aumentare la flessibilità in entrata ma non in uscita perché questo elemento crea insicurezza e depressione. E’ un autogol spaventoso: la gente deve sentirsi più sicura per riuscire a superare la crisi.

Quale conclusione?

Bruni: Renzi ha ragione nel puntare l’accento sul lavoro come questione principale. Sono convinto che il lavoro sia “la” questione per il nostro tempo. Occorre però un’idea di capacità produttiva altrimenti da dove nascerà il lavoro che serve? Bisognerebbe aprire una sorta di Sinodo permanente “laico” sul tema del lavoro che apra un grande confronto sull’occupazione del futuro.

 

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