Il marito ha riconosciuto le false accuse perché la polizia non torturasse anche sua mogliedi Samuél Gutierrez
Il martirio in Pakistan ha oggi molti volti. Uno di questi, forse quello messo più a tacere, è quello che fa subire a migliaia di famiglie cristiane le conseguenze dell’ingiusta e crudele legge antiblasfemia.
Il caso di Asia Bibi, madre di famiglia condannata nel 2009 all’impiccagione per blasfemia, è forse il più noto, ma non è l’unico. La legge è già costata molte vite in Pakistan. Molti cristiani e anche alcuni membri della Ahmadiyya (una minoranza islamica) e buddisti restano oggi nel braccio della morte, in condizioni deplorevoli, accusati di un crimine assurdo che nella maggior parte dei casi non hanno commesso.
Oltre a rappresentare una violazione flagrante dei diritti umani, la legge antiblasfemia è spesso utilizzata come “strumento di vendetta” nei conflitti privati. Qualsiasi scusa è buona se si vuole danneggiare un avversario o un nemico. Non c’è bisogno di testimoni né di prove addizionali per sanzionare quanti sono accusati di offendere Allah, Maometto o il Corano.
L’applicazione della legge istituita nel 1986 presuppone la realizzazione di un processo rapido, quasi senza garanzie, e una condanna a morte o la prigione per quanti offendono il credo musulmano.
Una volta condannati, il marchio della blasfemia è indelebile. Neanche l’assoluzione garantisce la sicurezza. Dopo lunghi processi per dimostrare la propria innocenza, un buon numero di accusati di blasfemia è stato massacrato da folle furiose dopo la liberazione.
Anche la difesa pubblica degli accusati o qualsiasi critica all’ingiusta legge antiblasfemia è motivo di ira da parte dei radicali, come dimostra il caso del ministro cristiano per le minoranze, Shahbaz Bhatti, brutalmente assassinato il 2 marzo 2011 dagli islamisti radicali per la sua opposizione alla legge e la sua difesa di Asia Bibi.
“La legge antiblasfemia – è arrivato a denunciare – è uno strumento di violenza contro le minoranze, soprattutto contro i cristiani”. “Mi può costare la vita”, disse, “ma continuerò a lavorare per modificare una legge che viene usata per risolvere questioni personali”.
Il caso di Shagufta Kausar
Come avverte con preoccupazione l’agenzia cattolica di notizie Fides, i casi di cristiani accusati di blasfemia sono aumentati considerevolmente negli ultimi anni. È un’altra dimostrazione della persecuzione disumana che subiscono le minoranze in un Paese che si dice democratico.
Uno di questi casi, poco noto, è quello di una donna che come Asia Bibi è stata accusata di blasfemia in Pakistan. Si tratta di Shagufta Kausar, madre di quattro figli tra i 6 e i 12 anni, accusata di blasfemia insieme al marito, Shafaqat Emmanuel. Ci ha raccontato la loro storia Joseph Anwar, fratello minore di Shagufta, accolto da due mesi in un centro per rifugiati a Valencia (Spagna).
La coppia è stata arrestata a Gojra, dove vive, il 21 luglio 2013, e incarcerata nella prigione di Toba Tek Singh per aver inviato presunti sms blasfemi contro vari leader musulmani locali.
La coppia ha negato le accuse, e in sua difesa Shagufta ha dichiarato alla polizia che un mese prima avevano perso il telefono cellulare e che avevano anche chiesto al negozio di bloccare la SIM.
La polizia ha iniziato allora un terzo grado con inclusa la tortura del marito, paralizzato e con handicap fisici.
“Lo hanno torturato davanti alla moglie e ai quattro figli”, ha spiegato Joseph. “La polizia lo ha costretto a confessare le accuse o a coinvolgere altri. In caso contrario, avrebbero iniziato a torturare sua moglie”. “Mio cognato ha confessato per salvare sua moglie, perché non c’è uomo che possa sopportare di vedere la moglie torturata dalla polizia”.
Anche dopo aver verificato che la coppia aveva davvero perso il telefono e la SIM, la polizia ha portato avanti il processo.
“Mia sorella e suo marito non hanno studiato, parlano solo punjabi e un po’ di urdu, e i cellulari funzionano solo in inglese – ha precisato Joseph –. Risulta poco verosimile anche che persone umili e senza cultura abbiano i contatti di persone influenti come quelle che hanno ricevuto i messaggi. È stata chiaramente una montatura”.
Dopo l’arresto di sua sorella, Joseph ha ricevuto una chiamata della polizia, che voleva interrogarlo dopo aver insinuato che forse anche lui era coinvolto nel caso. Il giovane cattolico pakistano ha attaccato subito il telefono e ha iniziato la sua fuga. Sapeva come agiscono la polizia e i giudici nel suo Paese. Non aveva altra via d’uscita.
“La legge antiblasfemia – sostiene convinto – è fatta per perseguitare i cristiani. La polizia fa finta di niente e lascia che i musulmani radicali accusino falsamente e incoraggino questi processi. La loro testimonianza vale più della nostra. Usciamo sempre perdenti. La legge è una scusa per farci fuori e terrorizzarci. È una chiara persecuzione per motivi religiosi”.
Anwar afferma che anche se la legge antiblasfemia è antidemocratica e ingiusta, i cristiani la rispettano e non osano parlare né bene né male di Maometto o del Corano.
“Sappiamo che se parliamo contro il profeta ci perseguiteranno; per questo non parliamo di lui – ha spiegato –. Crede che parleremmo di lui sapendo che ci perseguiteranno e che è in gioco la nostra vita? È assurdo! Non vogliamo morire. Vogliamo vivere. Quello che viviamo è uno scandalo. Sappiamo qual è la punizione e per questo non facciamo né diciamo nulla che possa essere suscettibile di essere punito. È ridicolo che ci accusino di una cosa del genere”.