La “battaglia culturale” per promuovere il rispetto delle donne non può prescindere dalla consapevolezza dell’importanza di un uso corretto del linguaggiodi Stefania Macaluso
E dunque il denominare è parte del dire: infatti assegnando denominazione in qualche modo si compiono i discorsi.
Noi diciamo dunque: la correttezza del nome è quella che riesce a dimostrare quale è la cosa.
Platone, Cratilo
"Questa è una battaglia culturale a 360 gradi" ha detto il Presidente del Consiglio Enrico Letta il venticinque novembre, in occasione della giornata mondiale dedicata alle donne che subiscono violenza.
Parole autorevoli che non possono che suscitare consenso: il termine “battaglia” evoca mobilitazione, determinazione al cambiamento, individuazione di una negatività da abbattere; la parola “culturale” poi possiede un’aura di sacralità: rimanda al patrimonio identitario, a valori da custodire e tramandare.
Peccato che certe affermazioni così alte riecheggino giusto il tempo di pronunciarle, e poi resta il silenzio di un’eco perduta. Si fa presto, infatti, a dire “cambiamo cultura”!
Ci avverte il filosofo Thomas Kuhn che i cambiamenti culturali avvengono attraverso rivoluzioni relative ai “paradigmi”, cioè alle “visioni” del mondo fatte di idee, credenze, valori, teorie che si diffondono all’interno di una comunità sociale. Le rivoluzioni possono partire da un galileiano “Eppur si muove” che l’ostinazione di uno scienziato finisce per introdurre nel “sistema” come principio e veicolo di riorganizzazione teorica cui aderiscono via via altri soggetti. I cambiamenti possono anche conseguire da una forza che Platone chiamava eros, desiderio e amore di conoscenza, che spinge verso l’acquisizione del sapere e la sua diffusione. Che sia tenacia della razionalità o passione per la conoscenza, qualsiasi “riforma del pensiero” nella dimensione sociale avviene solo attraverso la trasmissione di esso. Occorre dunque porre molta attenzione alla complessità dei processi attraverso i quali circolano idee, saperi, mentalità, formando cultura, dunque società, vale a dire esseri umani reali impegnati a dare senso all’esistenza.
Non semplicemente vivendo, ma nella misura della consapevolezza esistenziale, s’incide nella realtà. Coloro che hanno il ruolo di guidare, formare, educare (politici, giornalisti, insegnanti) sono responsabili nel dare un orientamento piuttosto che un altro all’esistenza di più soggetti; tali modelli sono determinanti per favorire o meno relazionalità virtuose che generano benessere sociale e individuale. Cultura “sostenibile”, una necessità democratica chiave, ciò che esprimiamo nei termini di cittadinanza responsabile. Una riforma o rivoluzione culturale in tale direzione non può derivare da un’azione programmatica settoriale che dei volenterosi portano avanti. Si tratta di movimenti non lineari, cioè non risultanti da nessi causali sequenziali ma da interconnessioni di fattori complessi nei quali, per il fenomeno della “circolarità ricorsiva”, i soggetti produttori del cambiamento diventano, nella misura della loro consapevolezza, portatori della efficacia responsabile del cambiamento. In sostanza: non si verificano cambiamenti culturali virtuosi, se non per la testimonianza del valore del cambiamento che funge da moltiplicatore geometrico. Le figure in specie sono coloro che riconosciamo come educatori, maestri, i quali si fanno carico, in misura più o meno consapevole, più o meno visibile, di contribuire alla salus publica, appunto al benessere.
Non possiamo qui prendere in considerazione gli elementi della complessità dei processi culturali, ma possiamo certamente soffermarci su una considerazione elementare: qualunque trasmissione culturale avviene attraverso il linguaggio, dunque dobbiamo chiederci come il linguaggio da noi usato contribuisca a modificare il paradigma culturale, la mentalità sociale.
Platone riteneva che il linguaggio consentisse il discernimento della natura delle cose significate, non attribuiva dunque all’atto del denominare un valore semplicemente convenzionale per cui le parole possono essere modificate arbitrariamente per convenzione d’uso. Pensava infatti che i nomi, presupponendo la realtà a cui si riferiscono, non fossero indifferenti alla natura delle cose.
Premesso ciò, potremo riflettere sul tema specifico della relazione tra l’uso della lingua italiana e il rispetto dell’identità di genere, nella convinzione che la “battaglia culturale” per promuovere il rispetto delle donne non può prescindere dalla chiara consapevolezza dell’importanza di un uso corretto del linguaggio. Diversamente da un sentire diffuso, il sessismo semantico non è un fatto aleatorio nell’attuale orizzonte culturale, piuttosto va attribuita all’uso che ciascuno di noi fa delle parole, una porzione di responsabilità nei confronti della sofferenza, sempre più spesso della violenza, subita da tante, troppe donne nella nostra società. Da qui passa la “battaglia culturale” da più parti auspicata.
Le istituzioni preposte alla formazione, scuola e università, e all’informazione, mass-media, sono direttamente implicate in questa operazione culturale. Scuola, università e pubbliche amministrazioni da tempo sono chiamate ad un reale impegno per l’uso del “linguaggio non sessista”, secondo quanto prevedono le “Linee guida per l’uso del genere nel linguaggio amministrativo” di cui le varie amministrazioni sono tenute a dotarsi.
Col termine sessista si fa riferimento alla nozione di linguistic sexism elaborata negli anni ’60-’70 negli Stati Uniti, con la quale si indica la discriminazione nel modo di rappresentare la donna rispetto all’uomo attraverso l’uso della lingua.
Nel 1993 la Presidenza del Consiglio dei Ministri diramava le Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua Italiana già pubblicate nel 1987 a cura della studiosa del linguaggio Alma Sabatini. Così scriveva Tina Anselmi, a quell’epoca Presidente della Commissione nazionale per la parità e le pari opportunità tra uomo e donna, nella prefazione: «L’idea di trasformare completamente la lingua italiana in una lingua non sessista non é stata realizzata, né d’altronde era immaginabile che lo fosse. Lo studio ha avuto comunque l’innegabile merito di avere sollevato il problema e di averlo reso presente soprattutto a chi con il linguaggio lavora».
Alma Sabatini sosteneva che i termini con cui ci esprimiamo denotano il nostro pensiero; la scelta di un termine piuttosto che un altro può comportare una modificazione nel pensiero e nell'atteggiamento di chi lo pronuncia e quindi di chi lo ascolta: «La parola è una materializzazione, un'azione vera e propria».
Nel 2012 il Consiglio Universitario Nazionale ha fatto sue le linee guida del documento “Lingua e Identità Di Genere”, curato dal Comitato per le pari Opportunità dell’Università Ca’ Foscari di Venezia, dichiarando con una mozione: «il CUN … auspica inoltre che il linguaggio non sessista sia adottato da tutte le istituzioni pubbliche, a partire dal Ministero e dalle Università». L’auspicio si riferisce in particolare all’uso del femminile per le donne che ricoprono professioni e ruoli direttivi e di prestigio. La diffusa tendenza a denominare al maschile i titoli professionali e le cariche di prestigio attribuiti a donne, rivela un’atavica mentalità maschilista radicata nella cultura italiana che, disconoscendo l'identità di genere femminile, finisce per negare le donne.
Il linguaggio è determinante nel veicolare il pensiero rispettoso dell’alterità. La scelta dei termini destinati alla diffusione del pensiero di chi riveste ruoli pubblici, attiene alla responsabilità sociale di costruire coscienze soggettive capaci di relazioni rispettose del riconoscimento identitario. E’ in questa direzione che va intrapresa la battaglia per educare al riconoscimento dell’identità di ogni essere umano e per sviluppare il rispetto verso ogni diversità.
I linguisti dell’Accademia della Crusca ci ricordano che la grammatica della lingua italiana esige la concordanza di genere, pertanto i vari Repertori del linguaggio non sessista ci dicono che le donne che rivestono ruoli professionali e istituzionali vanno denominate al femminile (avvocata, direttrice, dottoressa, assessora, ministra, …). Il misconoscimento linguistico delle figure professionali e istituzionali femminili ha come conseguenza la negazione dell’identità personale. La preferenza per l’uso del maschile, molto diffusa anche tra le donne, riflette l’esitazione ad accettare che ruoli direttivi e di prestigio siano riconducibili a donne.
La linguista Cecilia Robustelli, autrice delle Linee guida per l’uso del genere nel linguaggio amministrativo, afferma che l’uso del maschile 'in senso neutro', col pretesto che ci si riferisce al lavoro, al ruolo, non alla persona, è del tutto arbitrario poiché il 'maschile neutro' nella lingua italiana non esiste.
Accademici, intellettuali ed educatori, che si battono da tempo per l'adozione ufficiale dell'uso del genere femminile riferito alle cariche istituzionali e ai ruoli professionali ricoperti da donne, ribadiscono l’importanza del linguaggio per dare visibilità alle donne, per sottrarle al tendenziale oscuramento operato dalla mentalità ricorrente all’interno della società italiana.
Il documento più importante che sancisce la democrazia all’interno delle scuole secondarie non a caso porta il titolo Statuto delle studentesse e degli studenti. L’Ufficio scolastico Regionale della Sicilia ha promosso un progetto, per l’anno scolastico in corso, dal titolo “Percorsi di libertà: come contrastare la violenza sulle donne”, che prende in considerazione, tra l’altro, l’importanza del linguaggio. L’Università di Palermo ha contribuito pubblicando un apprezzato “Repertorio del linguaggio non sessista” redatto dal responsabile delle Relazioni interne dell'Ateneo, Riccardo Riggi.
Quanto ai mass-media pare che i giornalisti non siano consapevoli delle conseguenze di un uso scorretto della lingua che, riproducendo l’errore, rinforza il pregiudizio. L’influenza mediatica contribuisce così ad avallare la cultura sessista.
Riflette, su questa peculiarità del giornalismo italiano, Adriana Terzo nel suo articolo Perché (dire o scrivere) ministra non è una parolaccia, pubblicato sul sito “Lo Sciopero delle donne”: «… è probabile che la difficoltà che hanno colleghe e colleghi giornalisti, ma anche scrittrici e scrittori, speaker, anchorman e gente comune, ad usare ministra o avvocata sia legato non soltanto ad un problema di natura squisitamente grammaticale, ma anche socio-politico-psicologico». La stessa ci ricorda che nel 1994 il dizionario Zingarelli ha inserito la declinazione al femminile di 800 parole maschili: «Sono nate così l’avvocata e l’ingegnera, la ministra e l’assessora, la notaia e la chirurga, la giudice e la carpentiera. E a chi sostiene che certi femminili suonano male, vale la pena rispondere che non si tratta solo di fonetica, perché se suonano bene parole come parrucchiera, coniglietta o monaca, non si capisce perché non dovrebbero suonare bene, allo stesso modo, cariche come direttrice, assessora, sindaca o questora. Vai a capire».
Nell’attesa di capire le tante stranezze del nostro Bel Paese, nutriamo la speranza che ancora una volta, come nelle utopiche commedie di Aristofane, siano le donne a prendere l’iniziativa e compiere la rivoluzione.
Ci sembra vada in questa direzione la determinazione di Paola Inverardi, la rettrice dell’Università dell’Aquila la quale, appena eletta, ha chiarito come essere chiamata: non rettore ma rettrice. Con una nota ufficiale ha infatti invitato gli uffici dell’Ateneo a sostituire la dicitura «Il Magnifico Rettore», con la dicitura «La Rettrice».
Articolo tratto dal Portale della pastorale della Cultura di Palermo